Il ponte di Genova è crollato, trascinando nelle macerie la vita di 43 persone. Non ci sono parole per esprimere il dolore e lo sconcerto per una così grande e inutile tragedia. In questi giorni di parole ne sono state dette e scritte molte, alcune spese per capire, altre inopportune o semplicemente premature.

La fretta suggerisce di attribuire le negligenze e le responsabilità a singoli operatori privati o pubblici, – tra i quali la magistratura sicuramente appurerà colpe e responsabilità – ma credo occorra una riflessione attenta agli effetti di una cultura cresciuta all’insegna dell’incuria e della gestione sciatta dei beni collettivi. Per questa ragione non mi soffermerò su quello che è accaduto, sulle cause, sulle responsabilità, e sui possibili scenari futuri di quel viadotto. Voglio, invece, riflettere su alcune questioni di ordine più generale.

Sono sicura che chiunque sia passato su quel viadotto lo ricorda, esile e potente nello stesso tempo, conficcato nel ventre della città, indifferente al brulichio della vita che scorreva sotto di esso. La foto, che ho “rubato” dalle pagine di Repubblica, in questo senso è assai eloquente.

Era stato inaugurato a fine anni ’60, espressione del primato della tecnica e della sperimentazione, dentro un’idea di progresso e modernizzazione del Paese come ineluttabile scommessa verso un futuro fatto di grandi infrastrutture.

Mio padre era ingegnere, specializzato in ponti e strade, ed anche se ero piccina, ricordo con una certa nitidezza, il clima dell’epoca, lo slancio ottimista con il quale si attraversavano i territori con le grandi infrastrutture che percorrevano la  penisola, l’incrollabile fiducia nel cemento, materiale che si pensava indistruttibile e duraturo. Oggi sappiamo che non è così.

D’altronde la temperie della Modernità si è scontrata assai spesso, alla luce della Storia, con le critiche e la diffidenza nei confronti di una idea di “progresso” e di “nuovo” come valori mitizzati. Si è creduto che il ferro, il cemento armato, l’automazione, le scoperte del secolo scorso in genere, potessero liberare l’uomo dai limiti imposti dal Tempo e dallo Spazio.

E si è rivolto lo sguardo troppo spesso verso l’alto, si è puntato sullo sfidare il cielo e ci si è dimenticati di guardare a terra, lì dove i bipedi, che sono nati per muoversi sul piano orizzontale, camminano, si incontrano, entrano nelle case, nelle scuole, negli ospedali, occupano la scena dove si rappresenta la “civis”……

Basta guardare con occhio minimamente attento le fotografie del Ponte di Morandi: dove i piloni giganteschi del viadotto si conficcano apparentemente a caso nel tessuto urbano, sfiorando edifici, invadendo spazi comuni, sovrapponendosi con protervia ad un paesaggio urbano che anche dalle foto storiche si dimostra essere un tessuto preesistente al ponte: ma può essere questa una idea di città decorosamente vivibile, che non si preoccupa solo di fornire cellule abitative, ma di costruire una rappresentazione di società civile evoluta?

Certo le cose saranno state più complicate nel percorso della realizzazione dell’opera, certo Morandi ha rappresentato come pochi altri progettisti di quella stagione, la capacità di andare oltre la pura tecnica per raggiungere obiettivi originalissimi e di altissimo profilo, ma anche quelle fotografie contribuiscono a insinuare il sospetto che qualcosa sia scappato di mano, che non tutto sia stato meticolosamente valutato e che nel progetto non si sia saputo introdurre tutta la complessità e vastità del reale.

Detto questo, non so se sia necessario ricostruire il ponte di Morandi, se occorra lasciare la memoria del crollo, se vada bene il progetto che Renzo Piano offre alla città, ma so per certo che questa tragedia deve indurci a riflettere sul nostro futuro.

Su un’idea di progresso e di sviluppo profondamente diversa da quella del passato da cui non riusciamo ancora a distaccarci, e che oggi deve essere accompagnata necessariamente dai concetti di “manutenzione”, “equilibrio”, “sostenibilità”. Tracciando le strategie per allontanare le ricorrenti emergenze, contribuendo a diffondere valori collettivi come quello, appunto, della difesa dell’ambiente in cui viviamo e in cui dovranno vivere i nostri discendenti, salvaguardando contratti sociali che aiutino a concepire il futuro come progetto plurale, condiviso, impostato su regole, garanzie e processi capaci di ascoltare e rispettare la volontà di tutti.

Affrontando il tema del lavoro e della crescita attraverso opere di manutenzione e riqualificazione dei nostri territori, delle nostre coste, delle nostre infrastrutture, dell’ambiente costruito. Poiché la vera grande opera su cui occorre investire è proprio la manutenzione.

foto da La Repubblica del 17.08.2018