Come si fa in modo che il distanziamento fisico non divenga un distanziamento sociale?

Dopo aver passato i giorni dell’isolamento a chiederci come sarebbe cambiato il mondo e a comporre buoni propositi, come quando da piccini si avvicinava la data della fine dell’anno o dell’avvio del nuovo anno scolastico, o un altra data che ci sembrava un punto di rottura con le nostre consuetudini, oggi siamo qui.

Possiamo uscire, filtrando il nostro respiro attraverso le mascherine, scansando coloro che si avvicinano troppo, guardando l’altro con sospetto, combattuti tra la paura del contagio e l’ansia di normalità.

Ci siamo abituati velocemente al silenzio delle città, inframmezzato dalle sirene delle ambulanze, alle code per fare la spesa, ai video-incontri, ai sogni che non si staccavano dalla nostra mente al risveglio, e a molto altro. Ci abitueremo anche alle mascherine, e, dopo una prima ubriacatura di libertà, magari anche a rimanere di più a casa, a evitare l’aperitivo con struscio, alle vacanze in formato ridotto.

Ma non dobbiamo abituarci alla diseguaglianza, alla diffidenza, alle barriere. Molti di noi si sono risvegliati dalla quarantena più poveri, altri senza un lavoro, altri, pochi, hanno avuto dei profitti. Hanno sommerso il nostro mondo di regole, – tavoli a un metro, contenitori per i fazzoletti sporchi, flussi di ingresso e uscita, ecc – con la buona intenzione di permettere una riapertura pur in assenza delle condizioni sufficienti per un controllo efficace del virus. Forse si poteva semplificare spiegando solo che bisogna sempre stare a distanza, lavarsi le mani ed evitare di stare in luoghi chiusi senza protezione.

Impareremo a ri-progettare i nostri spazi dentro e fuori, a misura della distanza fisica, ma dobbiamo cercare di non sprecare questa occasione e continuare a lavorare per una società inclusiva, multi etnica e multi-culturale, dove la differenza può rappresentare ricchezza.

Cosa c’entra questo con l’architettura? L’architettura è uno degli strumenti che abbiamo per rispondere alla paura, per riorganizzare gli spazi collettivi, gli spazi pubblici, le reti della mobilità, i centri culturali e sportivi, le strutture sanitarie e scolastiche, gli impianti produttivi.

Oggi ci possiamo arrabattare con risposte improvvisate, ma dobbiamo guardare con lucidità a un futuro molto diverso da come lo immaginavamo solo tre mesi fa.

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