All’inizio era un globo interamente ricoperto dalla superficie uniforme delle acque (l’immagine rimanda, non a caso, alle Cosmicomiche di Italo Calvino). Poi emersero scogli, isole, continenti, valli, montagne foreste, pianure, deserti,….
L’infinita varietà che compone la geografia del mondo, l’avvicendarsi di singolarità dovute alla morfologia, alla orografia, alla geologia, al clima, alla fauna e alla flora, al sistema delle acque, alle forme insediative… fa si che ogni luogo costituisca un unicum irripetibile, che sfugge ad ogni tentativo di classificazione, se non nella misura in cui questa si limiti alla identificazione di alcuni “addensamenti” di caratteri ricorrenti, che tuttavia non sono in grado di restituire – se non per approssimazione – la completa identità del tutto: «Il mondo è un globo, qualcosa cioè di funzionalmente discontinuo, disomogeneo, anisotropico, non un universo ma un pluriverso, come direbbe Edgar Morin.» (F. Farinelli, l’invenzione della terra, Sellerio 2007)
È proprio la singolarissima combinazione degli elementi che lo compongono a rendere ogni luogo un caso a sé, unico e irripetibile, a definirne l’identità univoca, come le impronte digitali, l’identificazione facciale o altri procedimenti di identificazione biometrica che hanno riformulato il ruolo della fisiognomica tra le discipline della contemporaneità.
Ma la Terra deve essere abitata, adattata alle esigenze della specie dominante, resa accogliente e sicura per la sua sopravvivenza e per le sue forme sociali, i suoi processi economici, i suoi valori simbolici e i suoi miti; dunque i territori e i luoghi, per costituire un supporto agli insediamenti umani, pongono una serie di domande, variabili in funzione di come ne percepiamo la identità.
Ed è su questa identità che si fonda, secondo una tesi ampiamente condivisa da chi vive l’Architettura come una espressione di empatia nei confronti del mondo, la logica e il procedere del progetto: fornire una risposta pertinente, una soluzione “sartoriale” alle specifiche domande che affiorano da un luogo o da un territorio; prefigurare ≪qualcosa che ancora non c’è≫, scriveva anni fa su Casabella Gianni Vattimo – perché la soluzione non è totalmente contenuta nelle premesse – affidandosi all’intelligenza, all’esperienza, e alla inferenza tra casi confrontabili e soluzioni possibili, attraverso l’ascolto, la ricerca, la capacità di superare gli schemi preconfezionati e i cliché.
Mentre il progetto destinato alla Produzione Seriale (una penna a sfera, uno scooter, una roulotte) è finalizzato alla definizione di un prodotto che deve garantire la propria efficienza in qualunque contesto, il progetto di Architettura (un edificio, una piazza, una infrastruttura, un piano territoriale) è complementare ad un luogo ed un contesto, si modella sui caratteri morfologici del sito e del suo ambiente naturale e antropico, sui requisiti della committenza, sulla cultura tecnica e sul quadro normativo: una irripetibile combinazione di caratteri che conducono alla prefigurazione di un prototipo destinato a rimanere tale, pertinente ad un unico, specifico caso; il processo prevede una elaborazione originale che non può essere meccanicamente trasferita da un repertorio di soluzioni preconfezionate, standardizzate, verificate.
«Ecology was long dominated by a paradigm of stability but now we know that all natural systems are unstable. Nature’s unpredictable character is not a temporary state in the construction of human knowledge; it is a fundamental feature of nature, as theories of chaos and dynamical systems have demonstrated» (Serge Salat, Loeiz Bourdic, resilience of complex urban systems on trees and leaves)
Seguendo questa considerazione, l’eterogeneità generata della complessità dei caratteri dei territori non può essere totalmente imprigionata entro categorie, norme, definizioni, metodi e ricette che permettano di fornire risposte riproducibili ai quesiti che ogni brano della geografia sottopone; peraltro, c’è chi sostiene che l’atto comunicativo è reso possibile solo grazie alla presenza di margini di ambiguità, in una cornice di scambi e allusioni, tra soggetti che naturalmente detengono codici interpretativi non identici (cfr. Giovanni Garroni, Elogio dell’imprecisione, Bollati Boringhieri 2005).
L’eterogeneità, il suo continuo mutevole divenire, producono inquietudine e disorientamento.
Affrontare – senza il sostegno di modelli e metodi indefinitamente ripetibili – l’inafferrabile indeterminatezza del mondo e delle sue parti, se si considera la molteplicità un’indizio di imperfezione, può rappresentare un eccessivo fardello, una responsabilità insostenibile senza il supporto di una dottrina rigorosa, senza un processo metodologico codificato, senza un supporto normativo che definisca “benchmark” di riferimento, tracciando il perimetro di una rassicurante ortodossia.
Per imbrigliare l’infinito variare di forme e ritornare ad «una tavola piatta e liscia, fatta tutta della stessa sostanza e che garantiva in tale modo la nostra stabilità e identità» (F. Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio 2007) l’eterogeneità e l’indeterminatezza vanno esorcizzate, ricondotte ad un ordine tassonomico fatto di un numero limitato e stabile di tipi morfologici e funzionali.
É da questa inquietudine che nasce probabilmente un approccio antagonista al precedente; un approccio che ritroviamo nei miti fondativi dell’Architettura stessa, in cui si presuppone la necessità di individuare un sistema logico che ne certifichi il “rigore” e il carattere di “verità”. Ne ritroviamo le nobili radici nell’ideale enciclopedico che ambisce all’unità del sapere, nel bisogno primario di costruire processi e linguaggi condivisibili e accettati dalla comunità, di costruire un orizzonte di razionalità universale, che permetta di descrivere la complessità riconducendola entro vocabolari composti da alfabeti di segni comprensibili e grammatiche che ne strutturino le combinazioni entro una classificazione stabile e razionale.
Nei miti delle origini dell’Architettura si cercano principi ordinatori del Caos, a partire dalla convinzione che esista una corrispondenza tra un ordine superiore (divino, naturale) e quello terreno, presumendo un processo deduttivo che sovrappone la perfezione del modello ideale all’arbitrarietà del contingente.
Ma è questa stessa inquietudine – o meglio il bisogno di affidarsi ad una rassicurante oggettività – che concorre a legittimare un quadro normativo costruito su categorie prescrittive sempre più frammentate: categorie tipologiche e funzionali, standard, protocolli, repertori, certificati di conformità, salvaguardie, scadenze, che inducono a uniformare procedure e norme su territori eterogenei, a suddividere competenze e prerogative, a frammentare i processi riducendoli a protocolli settoriali che, nella loro crescente parzialità, si traducono nella applicazione di prontuari compilativi. Eppure lo spazio antropizzato che ci circonda è sempre frutto di un progetto, di una intenzione consapevole o inconsapevole, sistematica o stocastica, singolare o plurale; ma da questa frammentazione discende una immagine sempre più opaca del senso generale dell’azione progettuale e una apparente disseminazione e spersonalizzazione degli attori e delle responsabilità delle scelte.
Anche i processi di industrializzazione, in particolare oggi quelli delle componenti edilizie, le esigenze di fornire performance verificate e stabili a prezzi contenuti, le verifiche imposte dalle società assicurative, i requisiti dei sistemi di unificazione, convogliano fisiologicamente verso soluzioni omologate, ripetibili, collaudate da processi seriali e traducibili più facilmente in valori quantitativi piuttosto che qualitativi.
Anche la poderosa diffusione della tecnologia informatica dentro i processi di Architettura comporta, in buona misura, l’affermarsi di logiche basate su soluzioni codificate. Si è di fatto consolidata l’equivoca “vulgata” secondo la quale il “disegno assistito dal computer” sarebbe in grado di contenere e supportare ogni processo di elaborazione concettuale e – come si è potuto verificare confrontando la produzione corrente con le elaborazioni presentate nei concorsi e nelle riviste di settore – meno sofisticati sono i programmi, tanto più affiorano le semplificazioni, gli stereotipi, i repertori preconfezionati e i segmenti di mercato di riferimento, nel cui ambiente cui ogni software house fa nascere i propri programmi e di cui riproduce le attese. Peraltro, è evidente che un software di disegno e modellazione tridimensionale si basa su processi logici e simbolici ben differenti da quelli della elaborazione testuale: un segno vettoriale contiene attributi ed è soggetto a leggi combinatorie ben diversi da quelli di un font inserito in un testo, dunque una elaborazione attraverso questi software non può che contenere un insieme di vincoli interni (che si aggiungono a quelli esterni) che condizionano la varietà degli esiti possibili e la loro potenziale pertinenza ad una realtà eterogenea; inoltre, per quanto poco conosca la materia, il problema principale di un CAD non pare tanto la descrizione del manufatto in progetto, quanto quella del contesto territoriale che ne costituisce il supporto, proprio perché la complessità del contesto è difficilmente riconducibile alla levigata superficie piana che rappresenta il punto di partenza, la schermata di apertura di ogni programma.
In conclusione, da questo mio approssimativo tentativo di analisi, pare di riconoscere che nel campo dell’Architettura sopravvivano oggi due logiche a mio parere antagoniste: una Architettura plasmata sul Contesto ed un Contesto che si modifica per adattarsi all’Architettura.
Da una parte un’approccio processuale al progetto, plasmato su un rapporto bidirezionale tra domanda e risposta, tra la singolarità del progetto e la generalità delle dinamiche innovative, che riconosce nei concetti di “molteplicità” e “differenza” un elemento generatore di innovazione; un approccio la cui natura esplorativa non intende rinunciare alle esperienze e alle conoscenze acquisite, ma ad esse non riconosce il valore di “a priori” vincolante; un approccio che abbandona ogni pretesa deterministica per accogliere l’occasione del progetto come opportunità plurale e in divenire, che attraverso il confronto e la collaborazione produce un avanzamento condiviso della conoscenza e dell’esperienza.
Dall’altra, un approccio che riconosce, dalla dottrina accademica prima, fino alla ossessione normativa e al dominio tecnocratico poi, la logica classificatoria come dispositivo necessario per ridurre i livelli di complessità che la natura caotica della materia rappresenta. Compito della razionalità dell’uomo è rappresentare il mondo come sistema finito, determinato, riconducibile a categorie di conoscenza tanto più delimitate e specialistiche quanto più è elevato il livello di complessità che costituisce l’oggetto di studio. Da quelle categorie, da quella logica che insegue l’omogeneità, la riproducibilità e la determinatezza come condizione di “verità”, si ritiene di poter dedurre comportamenti universalmente validi all’interno di sistemi omogenei.
Ma quelle categorie sono – a mio parere – isolate e sradicate rispetto alla enunciazione complessiva; quei frantumi di tecniche sottratte alla totalità, quei processi parcellizzati, ridotti all’applicazione meccanica di protocolli deduttivi, diventano in definitiva l’esito di una clamorosa metamorfosi genetica della categoria dei progettisti, che la subisce e la accoglie come rifugio che garantisca la sopravvivenza; ma testimonia una drammatica mutazione nel ruolo, nelle competenze e nella natura della propria legittimazione sociale; e testimoniano anche il generale malessere contemporaneo, che rinuncia ad uscire dal contingente, a leggere le connessioni tra i fenomeni e a costruire strategie capaci di proiettarsi nel futuro.
Si tratta, come dicevo, di due approcci antagonisti, che derivano da radici storiche e politiche diverse, ma costretti a convivere nella cornice della confusa arbitrarietà concettuale del nostro tempo. Probabilmente esistono livelli di mediazione accettabili che tentano di conservare sufficienti spazi di manovra e campi d’azione pertinenti a ciascun approccio: d’altronde la propensione all’ortodossia e la necessità della norma fanno parte del contesto contingente, così come ne fa parte la ricerca di icone di innovazione e simboli di status, ambiti di sperimentazione e margini d’azione eterodossa; tanto quanto ne fanno parte l’orografia del terreno, il paesaggio costruito, gli stereotipi della committenza.
Per mio conto, come si sarà capito, propendo per l’“indeterminatezza” che presuppone il confronto, il rispetto, il riconoscimento delle reciproche identità, che genera imprevedibili ibridazioni garantendo, attraverso l’instabilità, il divenire del mondo.Temo tuttavia che lo “spirito del tempo” tenda a rendere l’ambiente sempre più ostile verso tutto ciò che sfugge a categorie stabili e rassicuranti, a giudicare faticosi, lenti e complessi i tentativi di interpretazione sistemica della complessità, a ritenere il confronto e l’apertura tra identità diverse un inutile – se non dannoso – dispendio di energia.