Ci concentriamo su tecnologie e applicazioni che rendono più semplici alcune attività della nostra vita quotidiana – nel lavoro, nel privato come nel tempo libero e nei rapporti sociali –, ma concediamo scarsa attenzione alla realtà dei luoghi in cui tutto ciò avviene, ad uno spazio dannatamente reale, la cui qualità, funzionalità, sicurezza, attrattività anche di lavoro e sviluppo dipende in gran parte dalla sua architettura.
Sottovalutare la centralità dell’architettura – intesa nel senso esteso di progetto di un luogo, di una città, di un territorio –, considerare che il risultato finale sia indifferente a prescindere dalla qualità di quel processo di pensiero complesso che un progetto è, crea l’illusione che ci porta anche alla crisi economica del nostro territorio, perché non c’è futuro in un territorio che non sia accogliente e sicuro dagli eventi naturali che possono interrompere improvvisamente e perentoriamente le attività che vi si svolgono. Così come non c’è futuro per un territorio che non sia adeguatamente interconnesso – certo in modo “virtuale”, ma anche materiale – con il resto del mondo.
La trasformazione di un territorio non deve essere necessariamente un fatto traumatico, o insostenibile per l’uomo e l’ambiente, ma può essere debitamente indirizzata alla sostenibilità senza rinunciare allo sviluppo: ci vuole però un progetto che accompagni il processo e che sappia trasformare il virtuale in fatto reale adeguato alle nostre aspettative, bisogna saper delineare il pensiero complesso della progettazione. È una forma di pensiero complesso che oggi sembra essersi perduta, subissata dalle emergenze, dalle ansie di crisi, dalla pressione di soggetti che puntano all’immediato rinunciando ad un progetto di futuro. Sembra in certi momenti che anche gli architetti, che per formazione dovrebbero essere i “titolari” del pensiero complesso della progettazione, abbiano perso la bussola, soprattutto rispetto al loro compito sociale, e riparino in comparti di attività avulsi dal contesto generale. Un processo negativo per la società oltreché per loro stessi, e favorito da rappresentanze di ottusi tecnocrati pre-galileiani che osservano insistentemente il dito ignorando l’esistenza della luna. Anche le imprese vivono un momento di grande difficoltà, soprattutto quelle che rappresentano più di altre valori guida per la qualità dell’approccio e del rapporto con l’architettura di un edificio o di un luogo; sono strette dalla morsa che le obbliga a tenere insieme costi / adempimenti amministrativi contrastanti fra loro / tempi di esecuzione / insolvibilità del mercato dovuta alla paura latente di un futuro non progettato. Ciò provoca l’arresto di processi di sviluppo, la paralisi della volontà/capacità di dare qualità architettonica al loro prodotto attraverso un sodalizio virtuoso e caratterizzante con i progettisti ed i fruitori del loro impegno di lavoro. Analogamente, le aziende produttrici di componenti per il settore, in un momento in cui la tecnologia potrebbe offrire ed offre spazi ampi all’innovazione anche per la creatività, si trovano a combattere solo sulla riduzione dei costi e con la scarsa prevedibilità degli scenari futuri anche solo a breve termine: unica certezza è l’instabilità normativa che spesso, a distanza di poco tempo, vanifica l’utilità di un investimento economico in un processo produttivo.
Se vogliamo uscire da questo vortice al ribasso e dare ALI al territorio c’è un modo solo: ogni attore del processo deve risollevare lo sguardo ed insieme costruire un sodalizio nuovo fatto di rispetto reciproco ed equilibrio di ruoli, inoculando nel settore un vaccino cooperativo contro il virus dell’eccesso competitivo. Un sodalizio per la qualità e l’impegno collettivo indirizzato ad un progetto per un futuro possibile ed equilibrato.
Bruno Zevi credo pensasse a questo quando fondò IN/Arch, benché si trattasse di anni in cui la situazione generale e il trend economico erano ben diversi da quelli attuali.
Oggi IN/Arch c’è, e forse è il luogo, reale, dove elaborare la produzione del vaccino.
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