(parte prima)
Il nostro grande regista Luchino Visconti, conte di Modrone, nato a Milano nel 1906, ci passava l’infanzia. A quanto lui stesso racconta, coi fratelli maggiori si impegnava alla scoperta della campagna circostante e, qualche volta, dormiva sull’erba, nelle passeggiate pomeridiane. Tutto questo capitava nel borgo di Grazzano, che veniva così descritto dalla sorella: “Grazzano era un castello di cui non restavano che rovine. Nostro padre l’aveva ricostruito assieme al villaggio. Quando diceva ‘Qui c’era un campo di patate’, ci faceva molto ridere. Ha costruito un intero villaggio medioevale, con tanto di scuola, di falegnameria, di bottega del fabbro … C’era anche una scuola di ricamo con delle monache. Oggi papà passerebbe per reazionario”. E di Luchino diceva: “Luchino era il nostro eroe … eravamo sempre in sua attesa, per dei giochi molto divertenti, un po’ bizzarri, nei giardini di Grazzano. Mia sorella e io eravamo le ‘piccole’. Mia sorella adorava le bambole, e allora Luchino ci faceva “i teatrini” … “Passavamo l’intera giornata ad aspettare la rappresentazione, ma lui non finiva mai di sistemare le luci, di tagliare le stoffe … e quando lo spettacolo era finalmente pronto, era già ora di andare a letto”.
Un posto da favola, diciamo oggi, dove aggirarsi affascinati dall’immersione in un passato solamente immaginato, grazie ai libri di storia. Cui certo non può essere paragonata la paccottiglia proposta dalle imitazioni contemporanee – soprattutto americane – realizzate nei parchi di divertimenti o nelle città del gioco, da Disneyland a Reno. Anche se le definizioni che hanno accompagnato Grazzano nel novecento sono numerose e non tutti lusinghiere: “Grazzano Visconti, un paese interamente finto” – opinione a quanto pare degli stessi conterranei piacentini – “a Grazzano falsa scenografia”, “falso medioevo”, “luogo dell’invenzione romantica”.
In effetti, è uno dei “falsi storici” meglio riusciti d’Italia – il Castello restaurato è l’unico “vero storico” del paesino – per quanto nelle intenzioni del suo ideatore falso storico in realtà non doveva proprio essere considerato. A raccontarne la storia provvede, tra altre pubblicazioni, l’interessante monografia “Giuseppe Visconti di Modrone e il suo borgo neomedievale”, curata da Ferruccio Pizzamiglio, Renato Passerini e Oreste Grana, da cui sono tratte alcune di queste note.
Il toponimo di Grazzano viene citato, per la prima volta (vi compare come “Grazano”), in un atto di vendita di terreni datato 1021. Grazzano era allora un piccolo centro rurale, non ancora incastellato, con case di legno. Il castello venne eretto quando una delle più importanti casate piacentine – gli Anguissola – ghibellini e legati ai Visconti, signori e poi duchi di Milano e di molte altre città, tra cui Piacenza, acquistarono terreni nelle valli del Nure e del Trebbia. La costruzione del castello risale al 1395 ed è attribuibile a Giovanni Anguissola, capitano dei Visconti con i quali si era imparentato.
All’epoca la proprietà portava solo il nome di Grazzano, e solo cinque secoli dopo fu ancora un Visconti (il padre di Luchino) ad associare definitivamente il nome della casata alla sua tenuta nel territorio piacentino, facendo diventare Grazzano Visconti quel borgo che ancora oggi è conservato quasi intatto. La realizzazione venne talmente apprezzata che il re Vittorio Emanuele III, con Regio Decreto, cambiò il nome della frazione in Grazzano Visconti e molti anni dopo, nel 1937, conferì a Giuseppe Visconti di Modrone il titolo di Duca.
Gli Anguissola, comunque, restarono signori di Grazzano per tutti i secoli successivi al quattrocento e ancora nell’ottocento, dopo l’abolizione dei feudi ai primi del secolo, erano proprietari del castello e delle vaste tenute agricole di pertinenza. All’estinzione della famiglia il loro patrimonio venne ereditato dalla madre dell’ultimo discendente, la marchesa Fanny Visconti di Modrone, vedova dal 1834, che morì nel 1884 e lasciò a sua volta erede del castello e dei terreni di Grazzano suo nipote, il conte Guido.
Ai piacentini Anguissola subentrarono perciò i lombardi Visconti di Modrone e il conte Guido Visconti trasmise il castello e i terreni ricevuti al figlio terzogenito, Giuseppe (1879-1941), imprenditore di straordinarie capacità e cultura, alla cui opera si deve il borgo che oggi possiamo guardare con stupore.
Ricchissimo, agli inizi del novecento decise di trasformare un rudere abbandonato e le poche costruzioni rurali utilizzate dagli agricoltori locali – “un semplice campo di patate” – in un borgo pittoresco dall’aspetto medievaleggiante. Un raro esempio di architettura revivalistica, scaturita dalla passione per la scenografia e il costume e dall’amore per le tradizioni.
Non c’è nulla di ricostruito, perché nulla è stato distrutto, salvo i pochi e miseri edifici rurali.
E, per quanto all’epoca molti pensassero che si trattasse del capriccio di un nobile facoltoso, era frutto invece della ripresa, certo “visionaria”, di iniziative simili di “villaggi” operai od artigiani già realizzati, come il Borgo del Valentino a Torino (1884) costruito nello “stile medievale” per un’Esposizione Internazionale o a Crespi d’Adda in Lombardia, dove si erige un paese intero per i lavoratori della vicina fabbrica tessile, mescolando i riferimenti stilistici del medioevo a quelli rinascimentali e orientaleggianti.
Siamo all’affacciarsi del ventesimo secolo, si afferma la produzione industriale, ma Giuseppe Visconti – valente imprenditore lui stesso – teme che l’esperienza degli artigiani che lavorano il ferro battuto e che intagliano il legno vada persa per sempre. Il suo villaggio, una sorta di scuola-laboratorio, viene concepito proprio per perpetuare la tradizione del lavoro artigiano, di conseguenza la sede deve essere all’altezza della importante funzione da ospitare.
Nasce perciò un villaggio tanto raffinato che diventa, forse suo malgrado, un luogo turistico, meta di scampagnate della borghesia e degli stessi Savoia, che lo visitarono più volte.
Ma è possibile che Giuseppe Visconti avesse anche intuito che Grazzano si sarebbe rivelato una grande attrazione turistica, oltre che centro rinomato di produzione artigiana: per questo già all’epoca fece costruire un albergo e strutture per la ristorazione dei visitatori. Disegnò perfino quanto riteneva che avrebbe aiutato gli abitanti e gli ospiti a calarsi in un’atmosfera fuori dal tempo, come i costumi tipici del Medioevo.
Il suo sogno era comune a molti altri intellettuali dell’epoca, attivi specie in Inghilterra e negli altri paesi ad economia industriale avanzata, seguaci dell’“Arts and Crafts” (arti e mestieri), un movimento artistico che considerava l’artigianato come espressione “alta” del lavoro e della creatività dell’uomo, in contrapposizione alla produzione industriale massificata e, spesso, di bassa qualità.
Questo movimento influenzò anche l’architettura di Grazzano Visconti, che è in autentico stile neomedievale neo-romanico, anche se alcuni edifici imitano lo stile rinascimentale, influenzato dal Romanticismo.
Il Conte lo concepì – partecipando attivamente all’elaborazione del progetto – desiderando che i suoi abitanti potessero godere di tutte le comodità e le innovazioni delle costruzioni più moderne e al tempo stesso potessero studiare e lavorare in un ambiente confacente, per esprimere la propria capacità creativa attraverso le arti e l’artigianato, come supponeva che avvenisse nel periodo medievale.
Per questo, oltre alle abitazioni, nel borgo di Grazzano Visconti sorsero molti edifici dedicati all’insegnamento: l’asilo per i bambini, la scuola di formazione professionale artigianale e di tecniche rurali per giovani e adulti, il teatro, l’”Istituzione Giuseppe Visconti” dove i dirigenti della Carlo Erba (azienda di cui la madre era comproprietaria), una delle più avanzate case farmaceutiche dell’epoca, tenevano lezioni gratuite di igiene e di tecniche agricole all’avanguardia.
Insomma, riuniva in sé tutte le strutture utili ad assicurare lavoro ai giovani che terminavano i corsi di artigianato creativo del legno e del ferro battuto della nascente – e come tale identificata – “scuola di Grazzano”. Un artigianato locale che è stato per lungo tempo molto conosciuto e apprezzato, tanto che si parla ancora di “stile Grazzano”.
Il borgo fu disposto a ferro di cavallo intorno al castello con fossato, a memoria dell’antica origine e del legame della famiglia con il territorio posseduto nei secoli, poiché l’obiettivo del conte era di realizzare un insediamento organizzato e non improvvisato che potesse fare degna cornice al castello.
Conosciuto come “uomo coltissimo di gusti raffinati e di idee ben chiare”, il conte Giuseppe non fece però tutto da solo. Coinvolse nel progetto l’architetto Alfredo Campanini, (nato a Gattatico di Reggio Emilia nel 1873, ma milanese di adozione) assistito tra gli altri, a quanto si riporta, dal capomastro Giuseppe Girometta e da Ernesto Ferrari, un esperto muratore la cui famiglia risiedeva a Grazzano da oltre tre secoli.
Il conte non se ne stette comunque con le mani in mano a guardare: i suoi biografi ci dicono che si occupò di progettare, dirigere i lavori, dipingere ed affrescare. L’architetto Campanini, probabilmente, intervenne anche come impresario, poiché svolgeva parallelamente questa attività. L’intesa coi suoi collaboratori risultò felice, tanto che nel giro di soli due anni (1905-1906) il nuovo impianto urbanistico di Grazzano Visconti fu portato a uno stato di avanzamento apprezzabile.
Anche l’antico castello, tra il 1906 ed il 1908 e sempre su progetto dello stesso Campanini, fu soggetto a notevoli interventi di ripristino, ampliamento e trasformazione: vennero aperte nuove finestre, rese rettangolari e merlate almeno due delle torri circolari, aggiunto un piano, inseriti richiami gotici, motti e stemmi nobiliari rievocativi dell’iconografia castellana.
Ma queste notevoli opere che introducevano, seppur con gusto e conoscenza non superficiale della storia, elementi decorativi piuttosto fantasiosi, furono inserite “in perfetta coerenza” con le idee del Visconti.
Certo, il maniero sorto alla fine del XIV secolo per ragioni difensive ed esigenze di controllo del territorio, era già stato trasformato nell’ottocento in residenza di campagna della famiglia Anguissola. Nelle planimetrie dell’epoca l’edificio appare un po’ diverso da come si presenta oggi: tra l’altro vi sono tre torri rotonde ed una sola quadrata.
Nelle piante successive al 1910 si possono notare i cambiamenti apportati: in particolare anche una delle tre torri rotonde assume base quadrata. Una documentazione fotografica datata 1879 mostra una costruzione sviluppata su due piani anziché i tre attuali, i torrioni sono di differente altezza, uno solo merlato e privo di copertura. Porte e finestre, privi di fregi e ornamenti si presentano nella tradizionale e semplice forma rettangolare.
Furono inoltre effettuati lavori di consolidamento statico e di ridefinizione dei volumi, seguendo i canoni di una ipotetica scenografia neo-medievale, con aggiunte rievocative suggerite dalle immagini rievocative della tradizione: fatti d’arme, motti, stemmi nobiliari.