Parafrasando il super-sfruttato testo di Calvino, si potrebbe affermare che ogni città (o sua parte) riceve la sua forma dal vuoto a cui si oppone; non tanto – come molti intendono – la città che espande il suo dominio sottraendo nuovi spazi alla non-città (deserto, acqua, campagna, terrain vagues: tessuti anomici, indeterminati e di funzioni incerte) e neppure la città che ri-occupa brani di territorio un tempo urbani, abbandonati o degradati; ma, assegnando al binomio pieno/vuoto il compito di rappresentare due categorie nodali del processo di costruzione del territorio, è evidente che le due categorie si pongono in continua e dinamica contrapposizione dialettica. Le città, i cui pieni (ossia i volumi edificati, che delimitano ambienti chiusi, ospitano funzioni, forniscono prestazioni e tecnologie, denotano significati formali e simbolici, incorporano valori immobiliari ) devono ineluttabilmente la loro forma materiale e il loro valore percettivo all’esistenza di spazi in-edificati, pubblici e/o collettivi (non necessariamente vuoti di forme, funzioni, valori, significati) che sono loro intorno. E viceversa.
Tra spazio collettivo ed edifici si intersecano flussi, percorsi, affacci, vetrine, informazioni, dall’uno all’altro si comunica la vita della città; un ampio mix funzionale permette di distribuire l’uso e l’animazione su un esteso arco orario; un adeguato mix sociale costituisce la premessa per avviare un processo di integrazione tra componenti sociali e culturali diverse; Il disegno delle facciate degli edifici delimita i contorni e costituisce le quinte della scena urbana, stabilisce gerarchie, intensità e rarefazioni. Il vuoto (o meglio, il non-edificato) fornisce tessuto connettivo, permette la mobilità, costituisce il teatro della dimensione collettiva della città (mercati, cultura, tempo libero………) lambisce gli edifici con aria, luce, rumori, odori, fenomeni atmosferici, riveste il terreno e la sua superficie, raccogliendo l’acqua piovana e conducendola al sottosuolo.
Spazi pubblici e spazi collettivi riuniscono porzioni di territorio urbanizzato tra cui insiste una relazione diretta; per chiarire: intendiamo qui riferirci allo spazio pubblico in quanto la sua gestione è di competenza degli organi di governo della città, mentre gli spazi collettivi sono quelli che ospitano attività di carattere collettivo. I due concetti non sono necessariamente coincidenti, ma possono e devono necessariamente interagire tra di loro.
Dunque, tra disegno del pieno e disegno del vuoto si stabilisce una relazione indissolubile, una complementarità simile alla icona dello yin e dello yang, in cui convergono i dualismi oppositivi e interdipendenti da cui ha origine la realtà: caldo e freddo, luce e buio, positivo e negativo….. In ogni metà è presente una piccola quantità del rispettivo opposto. Gli edifici da una parte, le strade le piazze i giardini dall’altra; il privato da una parte e il pubblico dall’altra – pur disponendo certamente di una propria identità autonoma, pur rispondendo ad uno specifico bisogno funzionale e ad una specifica intenzione formale – condividono la responsabilità del disegno urbano: intervenire su uno dei due elementi produce necessariamente un effetto sull’altro, la loro messa in opera e il loro effetto all’interno del sistema urbano si completano solo nella misura in cui ciascuno dei due elementi contribuisce a definire l’altro; tanto come forma che delimita il vuoto affacciandosi su di esso, quanto come interrelazione tra le funzioni ospitate nei pieni e nei vuoti urbani.
Strade e piazze, a lungo intese solo come spazi in negativo, da utilizzare per il traffico veicolare e parcheggi a servizio esclusivo dei pieni e, nel migliore dei casi, intese come episodi isolati ed esemplari, da riempire di aiuole, panchine, lampioni e altri oggetti da catalogo di arredo urbano, possono costituire invece, proprio per la loro natura pubblica tanto di uso quanto di competenza, uno strumento essenziale nella messa in opera di strategie di qualità urbana.
Proprio in questi ultimi anni le piazze (Tahir, Taksim….. ) si sono riconquistate il centro della scena, supporto fisico e simbolico della azione politica di base; ma, come chiariscono alcuni osservatori, la loro centralità nella scena dell’attualità non dipende neppure in parte dai loro caratteri architettonici e urbanistici, quanto dalle relazioni vitali che si sono stabilite tra il vuoto dello spazio in attesa della città e il pieno dei corpi e delle azioni dei suoi occupanti, che ne hanno riempito il vuoto di senso, di bisogni, di rivendicazioni.
Oggi sono proprio le «grandi città» e spesso i loro «non luoghi», che urbanisti, sociologi e antropologi pensano essere il luogo assoluto dell’anonimato, a manifestare un modo politico diverso di esserci. Nell’immaginario dei nuovi tiranni c’è una città vuota e gestita dalla paranoia di un’urbanistica che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums. Dall’altra parte i poveri urbani ma anche la «piccola borghesia» e le classi medie sanno che mai come adesso la città è una risorsa irrinunciabile, proprio perché è nella quotidianità dei suoi spazi, privati o pubblici, che si esercita la capacità di migliorare le proprie condizioni di vita. (F. La Cecla, contro l’urbanistica, Einaudi).
Altri vuoti ancora possono costituire i nodi attraverso cui dispiegare strategie di politiche urbane innovative: la città attuale è disseminata di edifici e infrastrutture de-funzionalizzati, relitti di un processo di sviluppo produttivo, demografico e di risorse ormai definitivamente concluso e in corso di riassorbimento; sono vuoti piccoli e grandi, antichi o contemporanei, efficienti o degradati, alloggi, negozi, magazzini, fabbriche, servizi distribuiti su tutta la città; quei manufatti rivestono valore sotto molteplici punti di vista: economico e patrimoniale, storico, simbolico, possono accogliere nuove funzioni più o meno temporanee. Possono, alcuni, costituire una indispensabile fonte di risorse patrimoniali per contribuire all’esercizio del governo pubblico della città. Altri, tuttavia, costituiscono una indispensabile materia prima per avviare azioni urbane concrete.
Possono soprattutto diventare – quando questi vuoti rivestano particolari caratteristiche di collocazione, di dimensioni, di vocazioni alla trasformazione – occasioni per innescare processi capaci di propagare, anche ai tessuti urbani limitrofi, la loro potenzialità all’innovazione, alla crescita e integrazione sociale, alle opportunità economiche, alla qualità formale e alla identità simbolica. Una condizione necessaria è certamente quella di concentrare su di se l’interesse e le risorse di diversi operatori pubblici e privati, di agire in una dimensione temporale definita e contenuta, in un quadro normativo certo e chiaro. Anche in questo caso l’azione pubblica risulta determinante, tanto più se essa si sviluppa all’interno di una strategia esplicitata e condivisa, dentro la quale trovano posto soggetti e operatori plurali.
Se è vero che la produzione industriale e la concentrazione della forza lavoro hanno smesso di essere gli elementi propulsivi delle grandi città occidentali – generando visioni apocalittiche di un futuro immediato che potrebbe velocemente riportarci all’indietro di molti decenni – è vero altresì che all’attore pubblico spetta principalmente il compito di sperimentare nuove ragioni d’essere delle nostre città, che si contrappongano alla povertà, alla marginalizzazione, al disagio, alla desolazione di molti brani del suo territorio.
È tra questi luoghi che occorre individuare i laboratori urbani dove accogliere esperienze innovative, che vadano oltre la esausta riproposizione di funzioni urbane standardizzate e stereotipate: appartamenti e grandi magazzini!
In una trasformazione epocale dei grandi paradigmi di riferimento spazio temporale (le persone e i gruppi sociali si muovono oggi in modo diverso nello spazio e lungo il tempo) anche le funzioni urbane tendono a rinnovarsi e occupare posizioni e ruoli diversi: si può abitare in modo diverso, si può lavorare in modo diverso, si può fare cultura, formazione, arte, benessere e salute in modo diverso, le merci possono essere prodotte, circolare ed essere commerciate in modo diverso; il tutto alla ricerca di maggiori livelli di condivisione, di solidarietà, di organizzazione diversa del tempo, di liberazione delle energie, di accessibilità alle informazioni e alle conoscenze……
Le diverse fasi di lockdown e le esperienze di architettura sostenibile, ci hanno ampiamente dimostrato che il rapporto tra verde ed edificato non è solo una questione quantitativa; la disponibilità di grandi porzioni di territorio naturalistico (la collina, nel caso di Torino) non soddisfa totalmente quelli che si rivelano oggi come bisogni di un nuovo modo di abitare.
Occorre realizzare un fitto intreccio tra tessuto urbano e parchi, viali alberati, giardini pubblici e privati, orti, aiuole; il verde di vicinato è indispensabile a migliorare il clima, a rigenerare ossigeno, a ospitare biodiversità, a controllare le precipitazioni, a offrire luoghi in cui incontrarsi in sicurezza, rilassarsi, praticare esercizio fisico e ridurre lo stress.
Si può allora pensare che nell’immediato futuro il progetto urbano possa attuarsi anche per sottrazione! Identificare volumi obsoleti che possano (sempre che le aree non siano irreversibilmente compromesse) ricostruire un patrimonio di spazi verdi diffusi e accessibili.