La pausa natalizia  nella trattazione di questo argomento è stata dovuta alle notizie che filtravano sull’approvazione della Legge di Bilancio nella quale, come abbiamo visto, sono stati inseriti  provvedimenti che riguardano l’esercizio delle professioni. Avendone adesso contezza si può tentare un ragionamento più accurato e  aggiornato. Forse è un esercizio corporativo, ma anticipo subito che talune affermazioni – sono abbastanza certo- non piaceranno  ad alcuni, soprattutto se valutate su una prospettiva corta, in base alle problematiche quotidiane che affliggono molti di noi e non solo i più giovani.

I criteri con i quali si potrà aderire alla flat tax sembrano volti a favorire una grande platea di professionisti in grave difficoltà; è difficile contestare  una misura di concreta riduzione della pressione fiscale. Tuttavia, se la si analizza con l’occhio rivolto ai problemi strutturali delle professioni (specie quelle tecniche), si possono ben vedere le ombre lunghe che il futuro ci riserva. Fatturati di 65 o 100mila euro sono soglie che in moltissimi si fatica a raggiungere; le sfide del mercato e del lavoro richiedono sempre di più studi strutturati, multidisciplinari, interconnessi e non il mantenimento di organizzazioni fatte da 1-1,5 addetti. Ebbene, la flat tax invece spinge alla riduzione, alla compressione reale o fittizia (voluta e con mezzi probabilmente anche non leciti) della dimensione lavorativa che si pensa  così più confortevole, rendendo  l’intera categoria professionale più debole, anche nella capacità di confronto con il potere politico; senza contare l’evidente disparità di trattamento che comporta una maggiore competitività economica dei soggetti flat rispetto a quelli fuori range, misurabile in almeno il 22%  e gli effetti distorsivi determinati dalla modalità di applicazione, già evidenziati  in un apposito recente articolo su IL SOLE 24 ORE. Ciò causerà, evidentemente, una ulteriore compressione della capacità economica degli studi più strutturati ma non grandissimi che, se vorranno reggere alla concorrenza, dovranno ridurre i loro compensi di un’aliquota proporzionale pagando, tra l’altro, molte più tasse: quindi anche meno investimenti diffusi in ricerca e qualità a causa  di un’ulteriore corsa al ribasso di cui in Italia veramente non si sentiva il bisogno.

Tutto ciò ha come corollario la crescita della polarizzazione economica già in atto: le organizzazioni più grandi sempre più forti e vincenti, quelle medie sempre più deboli e destinate a scomparire, quelle piccole che difficilmente cresceranno, al massimo stancamente sopravviveranno. Diverso sarebbe stato se si fossero incentivate, anche attraverso la leva fiscale, le aggregazioni professionali, la capacità -per tutti- di produrre reddito disponibile raggiungibile anche con altre misure come l’abolizione degli acconti fiscali su redditi e incassi ancora da produrre, l’abolizione dell’Irap, che per le professioni intellettuali è quanto di più illogico possa esistere, ancora l’incremento di detrazioni per l’acquisto di attrezzature e, perché no, anche per la partecipazione a concorsi e altro.  E’ la solita storia degli aiuti: possiamo aiutare chi soffre la fame dandogli semplicemente del cibo oppure possiamo insegnargli e dar loro gli strumenti per produrselo da se, il cibo… è questione di prospettiva e di potere.

Altro argomento  è quello legato alla certezza dei pagamenti e all’equo (?) compenso per il quale, in Italia, si procede in ordine sparso con Regioni virtuose e altre che invece fanno nulla o melina. La Costituzione sancisce il diritto a ricevere -sottolineo ricevere- per l’opera prestata un compenso proporzionale al lavoro svolto, anche il Codice Civile; che ci vogliano provvedimenti ad hoc, a maggior ragione legati alla buona volontà di singole Regioni, mi pare cosa assai singolare e, mi pare ancora, si vìoli anche un altro principio cardine della nostra società: quello che ogni cittadino è uguale di fronte alla Legge, da Bolzano a Pachino. Allora, sarebbe ragionevole che i principi costituzionali venissero univocamente riaffermati mettendo fine ad una deformazione dovuta a subdole, errate e interessate interpretazioni del diritto europeo.

Ancora, negli ultimi anni si è assistito ad un ribaltamento del principio connesso alle attività progettuali che consistono, per loro stessa natura, in obbligazione di mezzi e non di risultato. Singolari sentenze hanno trasferito in capo ai professionisti responsabilità  dai contorni variamente interpretabili, che non si esauriscono mai, sono sine-die, cosa che non avviene in nessun altro settore lavorativo e neanche per i reati più gravi. Per la verità, con lo Statuto del Lavoro Autonomo i legislatori avevano provato a reindirizzare le interpretazioni della magistratura ma senza successo. Mi sembrerebbe funzionale alle dinamiche di sviluppo che la certezza dei diritti e dei doveri  ritornasse ad un punto di equilibrio, tale da far lavorare serenamente i professionisti avendo cura di ben punire i furbi e i malaccorti che, come ovvio, non mancano in nessuna categoria di lavoratori.

Ci sarebbe altro da dire ma basterà qui soffermarsi sul ruolo che le organizzazioni professionali possono o dovrebbero avere rispetto a questi argomenti, in primis gli Ordini  e i Sindacati professionali. Non c’è dubbio che il sistema ordinistico nasce come organismo di autogoverno volto a tutelare gli interessi generali della collettività, non quelli specifici dei professionisti; pare quindi chiaro che le interferenze degli Ordini sulla regolamentazione fiscale o sugli aspetti squisitamente economici di categoria siano da considerarsi quantomeno fuori luogo.  Però, è  anche vero che nella tutela degli interessi generali della collettività sia da ricomprendere  la possibilità di avvalersi delle migliori prestazioni professionali effettuate nelle migliori condizioni possibili e ometto, in questa sede, di citare risoluzioni e direttive europee che vanno univoche in questa direzione. Quindi ben possono gli Ordini (in qualche modo cercano di farlo) intervenire quando le condizioni al contorno mettono a rischio la possibilità  di un libero ed efficace esercizio professionale.  Cosa diversa è per i Sindacati che invece, legittimamente, difendono interessi di parte. Basterebbe che di queste istanze si facessero più incisivamente carico, con il supporto  e la sinergia con il sistema ordinistico per la difesa degli interessi generali, per avere maggiore forza contrattuale, tra  l’altro rappresentando globalmente, le professioni in Italia, circa 2 milioni di lavoratori e il 12 % del PIL. Non è poco!

Difetta, credo, solo una cosa: la voglia o la capacità di lavorare insieme, sempre e non per spot e nel ribaltamento di questa tendenza  credo possa starci una parte della strategia per il futuro.

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