FRANCO LATTES INTERVISTA ALBERTO CAVAGLION

Alberto Cavaglion, storico piemontese, docente presso l’Università di Firenze, ha di recente pubblicato: Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, add editore, 2021.

Nel suo nuovo testo ricorrono temi, luoghi, edifici, riflessioni che hanno molto a che fare con l’architettura, il territorio, il paesaggio. Ci è sembrata una occasione utile per contribuire a quel colloquio tra progettisti di architettura e tutti coloro, operatori o fruitori, che vi rimangono per qualche ragione impigliati, che costituisce la principale ragione fondativa di In/Arch.

(FL) Nel tuo nuovo libro affermi che l’equazione secondo la quale “ricordare le tragedie della storia costituisce un antidoto al loro ripetersi”, non ha prodotto i risultati sperati. Anzi, mentre oggi il tema della Memoria straripa nei nostri cerimoniali sociali, assistiamo al crescere non solo dell’indifferenza, quanto di atteggiamenti di concreta, feroce intolleranza, di politiche discriminatorie e autoritarie, di diritti e doveri rimossi. Le parole (e le azioni che le incarnano), se usate con eccessiva disinvoltura e insistenza, perdono di senso, diventano “parole ombrello” (ne vengono in mente altre: resilienza, partecipazione, ecologia…) suggestive ma sempre più generiche e sfocate, percepite come indistinto rumore di fondo e, in definitiva, inefficaci. Insomma, il senso della tua riflessione è forse che, nell’equazione che riconosce nel Passato le premesse per costruire il Futuro, siamo rimasti intrappolati nella prima parte dell’enunciato, senza riuscire a trovare il dispositivo che utilizzi la Memoria come risorsa per alimentare il progetto di Futuro?

(AC) Sì, i deludenti risultati delle nostre pratiche della memoria sono davanti agli occhi di tutti. Nelle frasi che ascoltiamo per strada, in rete, nei discorsi dei giovani. Vien da chiedersi a quale livello di degrado saremmo giunti senza queste pratiche, alcune fra l’altro assai notevoli, ma non vi è dubbio che la somma dei risultati negativi prevale sui risultati positivi. Prima ne prenderemo atto, meglio sarà. La forzata lontananza, dettata dalla pandemia, dovrebbe, secondo me, favorire, una pausa di riflessione. Una sospensione di talune pratiche logorate dall’uso, sarebbe auspicabile; ancora più utile potrebbe essere una generale autocritica fra gli addetti ai lavori che, come me, si sono sentiti e si sentono a disagio quando indossano i panni dei “guardiani della memoria”. L’immagine dei guardiani è efficace, ma chi l’ha coniata, così come i tanti che oggi, in numero sempre più elevato, tuonano contro gli abusi della memoria o polemizzano contro il 27 gennaio, poco o nulla stanno facendo per rimediare, che poi vuol dire incentivare l’autocritica. Gli storici più di altri sono sempre molto dubbiosi nel mettere in discussione se stessi. Soprattutto, poco o nulla si fa per aiutarci a individuare qualche via d’uscita praticabile. In Italia domina sempre il genere della deprecatio temporum, minor fortuna hanno le persone di buona volontà.

(FL) A partire dal titolo, il significato che attribuisci al termine “contaminazione” è totalmente negativo: qualcosa di “tossico” che turba, corrode, deforma il senso e la fruibilità del territorio. Tu sei uno storico, per così dire “militante”, ma con questo tuo ultimo lavoro hai intenzionalmente lanciato un avvertimento che attraversa i confini del tuo ambito disciplinare, coinvolgendo istituzioni, operatori della cultura, del turismo, della scuola, pianificatori, architetti, ecc. Nel testo citi Gilles Clemént, un grande studioso e progettista di giardini, usi parole che sono familiari al linguaggio dell’architettura: memoriale, soglia, paesaggio, territorio, conservazione, dissesto… Si tratta in questo caso di una “contaminazione”, di una azione perturbante positiva. La disgregazione dei confini, di luogo, di tempo, di categorie, di discipline, che impediscono il rimescolarsi di saperi e di pratiche, che distinguono perentoriamente Passato, Presente e Futuro, non potrebbe contribuire a superare stereotipi ripetitivi, ad attivare «strategie oblique» e a «suggerire a chi verrà dopo di noi un percorso di guarigione, di rigenerazione, in una parola di speranza.»?

(AC) Un ruolo importante nella stesura del libro ha avuto la lettura incrociata del saggio di Martin Pollack sui “Paesaggi contaminati” (dove si parla dei luoghi di sterminio di massa perpetrati dai nazisti nell’Europa centro-orientale, quelli che noi conosciamo attraverso i romanzi di una torinese, Marina Jarre) e il “Manifesto del Terzo Paesaggio” di Gilles Clément. Ho provato a seguire le orme di Pollack e Clément. In un paradossale binomio concettuale ho ipotizzato l’esistenza di un quarto paesaggio, quello dei luoghi dove si esercitò la violenza dell’uomo sull’uomo. Ho provato a chiedermi: «Cos’e il Quarto paesaggio? – Tutto. Cosa si è fatto finora per conservarlo? – Niente. Cosa aspira a diventare il Quarto paesaggio? – Qualcosa». E’ la prima volta che mi capita di ricorrere a una fonte esterna alla ricerca storiografica, spero non sia una forzatura. Tra il Terzo paesaggio e il nostro (per ora ipotetico) Quarto paesaggio – quello costituito dalle memorie da decontaminare – sussiste un legame più stretto di quello che sussiste fra il Terzo paesaggio e i primi due (quello della natura incontaminata e quello delle arti figurative). Si tratta di iniziare un percorso nuovo e diverso: considerare musei, memoriali e monumenti futuri non nella loro fissità, ma come entità in movimento. Si potrebbe parlare di un doppio legame. «Luoghi abbandonati dall’uomo» sono gli interstizi urbani, gli angoli incolti sul bordo di una strada, di cui scrive Clément. Non diverso, il destino di molti altri loci soli: il terreno dove sorgeva un campo di concentramento, una caserma dove si torturavano gli oppositori politici, un prato dove si fucilavano i condannati a morte, la riva di un torrente dove si abbandonava la salma di un prigioniero morto in seguito alle vessazioni subite, i resti di un villaggio bruciato dai tedeschi per rappresaglia. Ti dirò che in un primo momento avevo pensato d’intitolare il libro, anzi proprio di concepirlo come un documento politico: “Manifesto del Quarto paesaggio”. Il rigore di Pollack e il peso della pandemia hanno poi spostato l’ago della bilancia sul concetto di “contaminato”, luogo non che attrae, ma respinge il nostro sguardo. Luoghi convalescenti, malati che richiedono lunghi periodi di attesa, altro che visite “mordi e fuggi” o trasformazioni in parchi disneyani.

(FL) Uno dei perni intorno a cui ruota la tua riflessione è che l’incontro con la Memoria si limiti troppo spesso a produrre compassione, ad un atto di contrizione auto-assolutorio che non costruisce in realtà alcuna prospettiva “strutturale” di speranza. Invochi una sorta di moratoria, «una pausa di riflessione accompagnata da qualche buona lettura» che sospenda le ridondanti e frettolose iniziative destinate alla rammemorazione, per riflettere sulle strategie da mettere in atto. E tra queste strategie primeggia il ritorno al libro, alla narrazione dilatata, alla necessità di ragionare e comprendere, prima di attraversare “in-avvertitamente” la soglia che introduce ai terreni insanguinati. Questo ritorno alla lettura e agli spazi che la accolgono, richiama alla mente la profezia di Victor Hugo in “Notre Dame de Paris”. «Così, fino a Gutenberg, l’architettura è la scrittura principale, la scrittura universale. Di questo libro granitico cominciato dall’Oriente, continuato dall’antichità greca e romana, il Medioevo ha scritto l’ultima pagina. […] Nel XV secolo tutto cambia. Il pensiero umano scopre un nuovo mezzo di perpetuarsi non solo più durevole e più resistente dell’architettura, ma anche più semplice e più facile. […] Il libro sta per uccidere l’edificio. L’invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia.» . Ci stai forse suggerendo di tornare a progettare tante piccole biblioteche, luoghi accoglienti di socialità, di elaborazione e di propagazione di cultura civile, piuttosto che pochi grandi monumenti clamorosi?

(AC) La rivincita del piccolo sul grande sarà fondamentale, così il riscatto del Bibliotecario (o Giardiniere) contro il Guardiano della Memoria. Il luogo dove ritrovarsi non potrà che essere la “soglia della casa dei morti” (la frase è di Primo Levi in ‘Se questo è un uomo’, che a sua volta s’appoggia a Dostoewskj). Molte politiche della memoria, molte esperienze didattiche hanno avuto come obiettivo il ritrovarsi in loco, Levi ci ha lasciato in eredità una prospettiva diversa, una postura: quella del collocarsi sullo stipite di una porta, sulla soglia, lasciando a noi lo sforzo di intuire che cosa sta accadendo oltre. All’esterno, se bene allenati e equipaggiati di buoni libri, spontanee associazioni di volontariato potrebbero fare miracoli.

(FL) Il sasso che hai gettato nello stagno è destinato a destabilizzare categorie consolidate, fino a toccare il nesso profondo che lega architettura (nella sue estensione più ampia) e memoria; dalle sue espressioni più arcaiche (il tumulo), alle architettura che più hanno richiamato attenzione e dibattito nella contemporaneità (i musei e i memoriali). Non so se la mia prospettiva di lettura sia corretta, ma mi chiedo se la tua riflessione porti a mettere in discussione le più recenti architetture dedicate alla memoria della Shoà, da Peter Eisenman a Daniel Liebeskind, e forse anche i progetti per i nuovi memoriali delle vittime dei naufragi (da Vincenzo Latina a Mimmo Palladino…) o  memoriali di altre tragedie, quando per comunicare l”indicibile” privilegiano il coinvolgimento sensoriale ed emotivo e l’azione performativa, piuttosto che la descrizione degli eventi?

(AC) Può darsi. Il mio obiettivo non è destabilizzare, ma suscitare discussioni, raccogliere punti di vista che non siano quelli tradizionali. Apparire agli occhi dei giovani diversi da quelli che loro immaginano di noi. Un mio vecchio e caro maestro amava ripetermi che bisogna sempre seguire l’esempio dei poeti, “il fin della meraviglia”. Dobbiamo sforzarci tutti di non essere identici a quelli che la gente pensa che siamo. Come ti dicevo nella mia analisi io non ho guardato alle grandi opere, Musei e Memoriali. Non ho competenze che non siamo quelle del semplice visitatore anche di luoghi teatro di tragedie recenti (Lampedusa, il confine di Ventimiglia, la stazione di Gorica). Cerco di suggerire la strada dell’antidoto contro il loro ripetersi, individuando là dove possibile il percorso da compiere affinché si possa accelerare il percorso di guarigione per questo o quell’altro paesaggio malato. Il passato è sempre una traccia, ma spesso dimentichiamo gli sforzi delle anime solitarie, degli sconfitti. Nel Novecento i Musei progettati e non attuati sono stati di gran lunga migliori di quelli realizzati: nel libro ricostruisco la storia della Casa del Ridere di Formiggini (con materiali raccolti in trincea) o del Museo degli Esuli inaugurato a Como da Arcangelo Ghisleri, oggi diremmo un Museo per perseguitati politici, richiedenti asilo.

(FL) Uno degli aspetti che trovo più suggestivi per l’architettura è costituito dal tema della “speranza”. Un “modo” che, se è corretta la mia interpretazione, ci interroga sulla configurazione degli spazi per la Memoria e richiama alla opportunità di concludere il percorso (lo spazio) pedagogico non con una partecipazione afflittiva, ma con una apertura gratificante verso il futuro (la soglia, non di ingresso in questo caso, ma di uscita), con un rinforzo positivo” per adottare una terminologia comportamentista, che stimoli e consolidi una risposta costruttiva all’incontro con la Memoria. «Questa la ragione per cui, a corollario della mia modesta proposta, in conclusione, accanto a Pollack, colloco un romanzo non fra i più celebri di Romain Gary, Gli aquiloni. Gary aiuta a sognare a occhi aperti, a fantasticare con lingenuità dellinfanzia e predisporsi a inaugurare piccoli musei dove la memoria del luogo sia garantita, da artigiani costruttori di aquiloni come Ambroise Fleury, il protagonista del romanzo.»

La “speranza” di cui parli, un gesto lieve ed ingenuo, che allevia il peso del dolore di cui è impregnata la Memoria, può davvero – secondo te – contribuire alla riparazione del mondo”?

(AC) Il “rinforzo positivo” cui accenni è cruciale. Gli storici, come gli architetti, dovrebbero fare affidamento sulle parole moderne scritte da Benedetto Croce più di cento anni fa: “Raccogliere casi di brutture e delitti e malanni e viltà e stoltezze e follie non significa intendere la verità storica di un’età». Nel libro io mi servo di un’espressione di Thomas Mann, più sintetica, altrettanto efficace: la Filosofia del Ciononostante, che altro non è se non il tema della speranza, il rinforzo positivo cui tu alludi. Mann, Gary, Perec e la sua memoria obliqua saranno in futuro risorse indispensabili per dare sostanza a una positività che non dovrà più essere soltanto l’oggetto di un sogno.

Foto di Eliana Lattes