Può essere strano, ingenuo credere che i partigiani si fermassero, in armi, ad osservare il paesaggio. Avevano ben altro da pensare. Ma forse il paesaggio è, ma non è soltanto, luogo ameno, panorama, natura osservata esteticamente. Questa è la definizione di paesaggio che ci ha lasciato Joachim Ritter e che si è consolidata nel tempo. Nel 600 il paesaggio si emancipa, non è più soltanto sfondo; diventa, presso i romantici, protagonista degli eventi, spazio di elaborazione di modelli di vita ed oggi si stempera in valori economici e politici: la sostenibilità, l’ecologia, eccetera.
Certamente i partigiani guardavano il paesaggio per individuare le postazioni dove nascondersi, quelli in cui sviluppare le proprie tattiche, le opportunità di attacco e di fuga.
Sfogliando diari, letterature, storie, racconti di quei tempi, e cercando tra i miei ormai sbiaditi ricordi, mi pare sia possibile cogliere nei paesaggi della Resistenza, questa assoluta priorità tattica, ma forse anche si potrebbe notare qualcosa in più e non del tutto secondario. Il paesaggio non è spettatore indifferente, ma, in qualche modo, appare partecipe delle azioni degli uomini.
Il paesaggio di queste valli tra Bagnolo e Barge, con centinaia di baite e case di pietra abbandonate perché incendiate e saccheggiate nei rastrellamenti, i buchi anneriti dal fuoco delle porte e delle finestre, fa segno del trauma che queste terre hanno vissuto in quei mesi: il passaggio dal «mondo dei vinti» (N. Revelli) a quello dell’abbandono delle campagne e della montagna, all’oggi, alle impronte sui territori lasciate dall’industria, dalle comunicazioni, dal turismo. Quelle baite, già in parte abbandonate «si trasformarono in ricoveri eccellenti per le bande avendo in sorte un irripetibile momento di gloria per consegnarsi di nuovo all’oblio e alla rovina» (G. De Luna). Il reticolo dei sentieri partigiani, su per queste montagne, ricalca la trama dei percorsi dei pastori che portavano agli alpeggi le “bestie”; le vie che le bande seguivano quando hanno ripiegato in Francia erano le stesse vie battute dei contrabbandieri che “passavano” la frontiera. Chi non conosce questi sentieri non è stato partigiano, scrive Fenoglio negli Appunti partigiani. Le rocce, i boschi, i valloni, le grotte che hanno accolto nei secoli passati eretici e ribelli hanno nascondigli che hanno protetto le bande durante i rastrellamenti. Abitare è lasciare impronte, diceva Benjamin: nel paesaggio, come nei linguaggi e nei mestieri, si depositano le nostre memorie. Quando sono distrutte una parte di noi se ne va.
“La Resistenza, rappresentò la fusione tra paesaggi e persone”, annota Calvino nella Presentazione a Il sentiero dei nidi di ragno.
Sovente i luoghi dove è passata la violenza, dove si nascondevano gli osservatori e le sentinelle per vedere senza essere visti, dove compiere imboscate e attaccar battaglia, son gli stessi luoghi nei quali ci fermiamo durante la passeggiata per godere il bel panorama, o nei quali vorremmo abitare per vivere tranquilli.
Credo che oggi dovremmo riconoscere come in quei tempi, durante la guerra partigiana, dalle valli Alpine alla Langa, si sperimentano e si instaurano, con i luoghi e con gli abitanti, rapporti autentici perché costruiti sul contatto diretto, cercato giorno per giorno, con le specificità dei luoghi sperimentando nuovi modelli di vita.
Se lo sfollamento dai grandi centri urbani già aveva posto alcune precondizioni sparpagliando, imprevedibilmente, nuovi abitanti giunti dalla città nelle campagne, la guerra partigiana, in molti modi, apre e costringe a comportamenti – rapporti umani, uso del territorio abitato, economia delle risorse – che rovesciano e contrastano paradigmi che sembravano allora consolidati, perché istaurati nel ventennio fascista, istituiti sulla retorica e l’ideologia totalitaria e nazionalista, l’autarchia anche del territorio, evidentemente indirizzati, fin dagli inizi, alla gestione di una economia di guerra.
Nei dibattiti che avvenivano dentro e fra le varie bande, emergono sovente tensioni che rispecchiano, in qualche modo, la consapevolezza e la necessità di dover interrompere, anche su questo terreno, possibili ambiguità con quei Regimi che si stavano combattendo. Credo che oggi, in condizioni economiche e politiche mutate, ma in continuità con le premesse di allora, occorrerebbe ripensare i nostri atteggiamenti verso la natura e verso i paesaggi abitati che ci stanno, anche ora, interpellando.
Guardare oggi i luoghi tra storia geografie e memoria ci insegna a cogliere questi “paesaggi con figure”, non tanto come natura estranea ed indifferente alle cose dell’uomo, o come luogo estetico fermato nello spazio e nel tempo, immagine fotografica, ma come segni, come elementi attivi che agiscono nei mutamenti radicali di paradigmi antropologici e di modi di vita.
Forse come nel nostro cervello, nei luoghi dove si è scatenata la violenza si incorporano e si sedimentano tracce, segni, si inscrivono significati che, ce ne accorgiamo o no, entrano a far parte delle nostre memorie, del nostro immaginario collettivo, segnano il nostro presente, ci appartengono e come il linguaggio, parlano in noi.
Foto di Argyrios Gerentes su www.flickr.com: Cascina Moglioni Capanne di Marcarolo (AL) rifugio provvisorio dei partigiani del gruppo del Capitano Odino.