Dis-Ordine Architetti.
Nell’affrontare il tema di Palazzo Diamanti alcuni giorni fa avevo toccato, ma lasciato in sospeso, le questioni legate alla rappresentanza di categoria. Qualcuno forse penserà che potrei evitare di occuparmi del sistema di rappresentanza, ma probabilmente non sa che l’adesione non è volontaria, è una iscrizione obbligatoria per l’esercizio della professione e questo rende necessario occuparsene.
A mio giudizio è in corso un’involuzione preoccupante che sta riportando rapidamente il sistema a condizioni monocratiche da anni ’50 del secolo scorso ed è il settore intero a risentirne con una caduta libera in Italia dell’attenzione verso architetti e architettura. Ma per comprendere la situazione si deve compiere almeno sommariamente una digressione storica.
Gli Ordini nascono come corporazioni in una fase della storia d’Italia molto difficile – l’istituzione di quello degli architetti è del 1923 – e nel giro di pochi anni vengono profondamente segnati dalle leggi razziali.
Nel corso dei decenni successivi, il dopoguerra ma soprattutto a partire dagli anni ’80 e sino all’incirca a tutto il primo decennio del nuovo millennio, sono tuttavia stati capaci di profondi cambiamenti. Le ragioni sono naturalmente legate ai mutamenti democratici della Nazione, ma nel primo dopoguerra l’Ordine è ancora un luogo per pochi, basti pensare che Torino nei primi anni ’60 su base regionale e compresa la Val D’Aosta contava poco più di duecento architetti.
Una Istituzione facile da governare e da consultare “per alzata di mano”, dove nessuno metteva in dubbio la natura “progettuale” del compito dell’architetto né c’erano problemi di concorrenza e lavoro.
Ma in quegli anni l’ascensore sociale iniziava a mettersi in moto, effetto della riforma della scuola e dell’apertura degli accessi all’università, ed era forte il senso di “riscatto” che le famiglie mettevano nella necessità di far crescere i propri figli in una condizione di maggior cultura e opportunità rispetto a ciò che loro avevano vissuto. C’era inoltre la spinta positiva dei grandi cambiamenti politici e sociali del mondo occidentale dell’epoca, una società in grande fermento e con la voglia di governare il futuro.
Dunque una forte crescita della popolazione laureata (che poi evidentemente si interrompe essendo il nostro Paese ancora oggi quello con il minor numero di laureati in percentuale sulla popolazione), una crescita che coinvolge anche e soprattutto gli architetti che oggi in Italia, iscritti ad un Ordine professionale, sono oltre 150.000: nella sola Città Metropolitana di Torino quasi 7.000.
Dal punto di vista generale ciò ha significato un accesso alla professione da parte di “classi sociali” un tempo escluse dal mondo professionale, famiglie operaie e classe media, nuovi architetti che “osservavano il mondo” con occhi differenti e che pur con un certo distacco chiedevano una rappresentanza professionale differente ed un Ordine che offrisse servizi, rappresentanza sociale, democrazia interna e trasparenza di funzionamento; che aprisse ad un sistema dell’architettura mettendo al centro il ruolo sociale dell’architetto nel processo di formazione dell’architettura, della città e del territorio.
Ma gli Ordini erano e sono struttura rigida, pensata per altri scopi, complicati da modellare sul nuovo sentire dei propri iscritti che tuttavia mai si sono significativamente rivolti a strutture differenti, sindacati o associazioni libere dalle ristrettezze della legislazione gravante sugli Ordini.
La via intrapresa fu dunque di forzare il sistema al limite del possibile, in un processo di trasformazione che ha avuto trend positivo fino a circa tutto il primo decennio del duemila, per rallentare sino ad avere oggi un’inversione di tendenza ed un decadimento, in analogia al trend generale che si osserva in Italia oggi.
Quali novità portò questo periodo molto positivo per la diffusione e promozione della figura dell’architetto e dell’architettura come valore collettivo?
Innanzitutto la formazione di consigli fra pari e la considerazione del Presidente quale primus inter pares anziché dominus di un consesso di figure private di ruolo. Un concetto portato alle estreme conseguenze negli ultimi quindici anni circa dal consiglio dell’Ordine di Firenze che arrivò a stabilire una rotazione annuale programmata della carica di Presidente.
Ma la grande novità fu che l’Ordine diventava soggetto interlocutore autorevole nei processi di formazione delle politiche delle città e del territorio, facendosi promotore della professionalità sociale dell’architetto e favorendo la conoscenza delle sue prerogative per la qualità della vita di tutti e di ognuno. Perchè un ambiente costruito con qualità della progettazione è “medicina” per tutti.
Un processo in crescendo che ha coinvolto sostanzialmente tutto il sistema italiano, unitosi in una rete di esperienze, sino alla nascita del sistema delle Fondazioni degli Ordini (a cavallo del nuovo millennio – prima Milano, poi Torino e via via gli altri) con il compito di occuparsi di ciò che della legislazione ordinistica proprio non si riusciva a scardinare in assenza di una riforma strutturale vera.
Un processo che può identificare il suo apice nel Congresso Mondiale degli Architetti svoltosi per la prima volta in Italia a Torino nel 2008, che implicò un lungo ed approfondito dibattito sull’architettura, sulla professione, sul sistema mondiale dell’architettura con il titolo significativo di “Transmitting Architecture”, teso a esprimere il concetto della necessità di far conoscere e comprendere il senso dell’architettura a tutti: l’architettura per tutti.
Un processo finito. Oggi invece si registra un processo monocratico involutivo; l’autoreferenzialità; la spinta tecnocratica; l’accantonamento del concetto di professione sociale, che l’Europa riconosce invece agli architetti ed a poche altre professioni (Medici, Avvocati, …); il concepire con vezzo pseudo imprenditoriale la Fondazione come semplice macchina da reddito anziché motore di promozione e cultura.
Tutto ciò porta allo stallo, alla confusione ed alla perdita degli obiettivi maturati in anni di crescita positiva delle rappresentanze.
Si tratta di una vera involuzione mentre occorrerebbe ricercare e guidare una visione nuova che rigeneri il trend positivo del trentennio ’80/2010, non si tratta di guardare indietro ma avanti considerando le esperienze maturate per trovare percorso e sostenibilità di nuovi obiettivi.
Soprattutto obiettivi di unione nelle differenze con tutti i soggetti del settore, che è però a saperlo vedere la missione insita nel ruolo di IN/Arch, che dunque è il centro del processo di rinnovamento.