“Addà passà a nuttata”
La fase acuta del confronto/scontro generato da Sgarbi su Palazzo Diamanti a Ferrara sembrerebbe sia passata. Ripercorrendo i passaggi della discussione, ho però maturato l’idea che fra Sgarbi e “i suoi” versus chi si oppone alla sua tesi, in fondo non sia altro che una sana e vivace discussione sull’architettura e sul divenire della città. Difficile non sia vivace se c’è di mezzo Sgarbi.
Su un fronte e sull’altro del dibattito però i protagonisti sono stati per lo più architetti di varia estrazione, formazione ed esperienza professionale e colpisce che una tale discussione sia rimasta confinata fra “addetti ai lavori”. Colpisce ancor di più, anzi lascia attoniti, la sostanziale assenza nel dibattito delle rappresentanze ordinistiche degli architetti: su quel fronte infatti tutto si è ridotto alla timida “testimonianza” del comunicato stampa del Consiglio Nazionale. Probabilmente a Ferrara e dintorni riflessioni e posizionamenti ci sono stati, ma in generale la sensazione “dell’assenza” è palpabile, nel mio territorio evidente: da quello che fu uno dei maggiori Ordini Italiani non si è letto un rigo, non si è sentito un cenno che distogliesse dalle solite parole autocelebrative.
Ma teniamo in sospeso il tema delle rappresentanze che affronterò in un prossimo scritto e restiamo all’argomento.
Dunque a prescindere dalla posizione che ognuno di noi ha nella discussione su Palazzo Diamanti – la mia è che il progetto debba andare avanti – bisogna prendere atto che la discussione è rimasta sostanzialmente confinata “fra architetti”, senza riuscire a perforare l’interesse del pubblico sul modificarsi della città, del rapporto fra la sua parte storica e quella moderna, del rapporto fra la città “privata” e quella pubblica, insomma l’evolversi della città che quotidianamente ognuno di noi vive ed i cui esiti incidono profondamente sulla qualità della vita di tutti e di ognuno. Non c’è stato peraltro un significativo rilancio sulla stampa quotidiana di grande diffusione o nei notiziari radiofonici e televisivi, salvo anche in questo caso per i media specializzati. Aggiungo: ho avuto l’occasione nei giorni scorsi di parlare dell’argomento con alcuni parlamentari che conosco come persone attente, preparate ed informate. Ho chiesto loro quale tipo di impressione fosse emersa in parlamento da questa discussione; ritenevo infatti normale che ci fosse stata una eco parlamentare visto che ne è coinvolto un Ministero destinatario della richiesta di Sgarbi di modificare l’esito di un iter durato anni, iter del quale lo stesso Ministero era stato protagonista con opposto parere.
Nulla! Nulla è arrivato fra i banchi parlamentari o di commissione, il fatto non ha generato alcuna discussione.
Sono fatti che io trovo nel loro insieme eclatanti e gravi, gli architetti e l’architettura in questo Paese sono trasparenti nell’opinione pubblica e nel dibattito politico, ma non lo sono invece per provvedimenti che intervengono negativamente e pesantemente sull’esercizio della professione e conseguentemente sugli esiti della stessa: l’architettura, il disegno urbano, l’assetto del territorio.
Alla base di tutto evidentemente c’è il fatto che non sia dato acquisito e condiviso il ruolo sociale della professione dell’architetto, una professione il cui fare determina le basi materiali per lo svolgersi delle attività sociali ed economiche, i luoghi in cui esse si svolgono, l’efficacia ed il razionale sviluppo delle relazioni fra loro, qualità e sostenibilità dello sviluppo.
In sostanza il pensiero comune non assegna alcun valore aggiunto alla prestazione intellettuale rispetto alla pura tecnica, importante certo, ma non esaustiva né anteponibile al merito di una analisi progettuale: un po’ come pensare che la conoscenza e la capacità di analisi comparata di un medico possa essere sostituita da una macchina, un PC associato ad un distributore automatico di medicinali.
In questo decadimento di considerazione del ruolo sociale sceso a dismisura in anni relativamente recenti, certo non si può dire che gli architetti siano esenti da colpe. Sempre più spesso imboccano (spesso per necessità, ma questa non è una colpa) percorsi professionali che nulla hanno a che fare con le competenze peculiari della loro formazione, in alcuni casi si tratta persino di attività che non riguardano personale laureato o diplomato (sia chiaro, non è un giudizio di merito sulla dignità del lavoro), purtuttavia l’appellativo di “architetto” rimane generando sempre più confusione nel sistema: l’opinione pubblica, la politica.
Penso sia giunto inderogabilmente il momento di ripartire dai fondamentali e ricostruire figura e ruolo della professione lasciando ad altri ciò che gli è proprio e riprendendo totalmente il controllo di ciò che fa parte della nostra cultura progettuale.
Occorre un moto d’orgoglio per un processo che si deve fare da soli ed insieme agli altri attori del processo di costruzione della città, un processo di ridefinizione e riallineamento dei ruoli che sono sicuro gioverebbe a tutti.
Un processo lungo ma da affrontare, altrimenti le parole d’ordine sulla legge per l’architettura o la rigenerazione urbana divengono vane.
Dunque bisogna mettersi al lavoro e come diceva Eduardo iniziare la cura e attendere pazienti … Addà Passà a Nuttata.
foto di Irina da Unsplash