Michelangelo affermava che la scultura si fa “per via di levare”….

Le «Linee Guida sulla Qualità dell’Architettura» recentemente approvate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, sono state salutate da autorevoli rappresentanti di categoria come un primo, incoraggiante passo sulla strada di una tanto a lungo invocata “Legge per l’Architettura”; ma mi domando se davvero questo elenco di buone intenzioni possa costituire un avanzamento normativo concreto e utile, nella direzione della qualità dell’architettura o piuttosto, non sia preferibile cancellare o modificare una serie di norme e condizioni operative che oggi nel loro insieme, agiscono di fatto come “Leggi contro l’Architettura”?

Davvero qualcuno ritiene che la ragione per cui le nostre città, il nostro ambiente costruito – almeno quella parte che non appartiene a nuclei storici di riconosciuto valore culturale o ad opere “griffate”, prodotte per occasioni eccezionali ed esemplari – si rivelano spesso mediocri, trasandate, banali, inappropriate, insomma “brutte”, risieda nella mancata consapevolezza che «Tutti i cittadini hanno il diritto di fruire di uno spazio edificato di qualità, poiché aggiunge valore all’ambiente di vita » come recita il documento? Aspetto che, tra l’altro, era già implicitamente contenuto nel riconoscimento che quella di architetto è una professione protetta, per il Munus Pubblicum, l’interesse pubblico connesso al suo legale esercizio, dal momento che esso incide comunque su beni e diritti fondamentali dei cittadini: diritto alla salute, difesa dei diritti soggettivi, tutela delle trasformazioni dell’ambiente e del paesaggio, sicurezza delle costruzioni e degli impianti…..

Le “Linee Guida” spaziano dalla qualità degli ambienti e dei paesaggi edificati, alla sicurezza e alla sostenibilità delle costruzioni, alla necessità di un dialogo interdisciplinare, alla esigenza di tutelare il patrimonio storico, moderno e contemporaneo, alla ineludibilità dei processi partecipativi, alla necessità di un approccio olistico che non trascuri le relazioni tra le parti ed il tutto. Un elenco di principi ed intenzioni sicuramente condivisibili, che forse finora non avevano trovato occasione per un riconoscimento organico e maturo da parte istituzionale, ma nello stesso tempo una catalogo di Wishful Thinking, di intenzioni tanto virtuose quanto astratte, di annunci confortanti che si limitano però a rispecchiare simmetricamente le rivendicazioni a lungo ripetute da scienziati, intellettuali, ambientalisti. 

Mi domando invece se, anziché aggiungere un nuovo e velleitario documento di indirizzo al garbuglio di atti che saturano l’apparato normativo, non sia più opportuno procedere in primo luogo a individuare le ragioni, le responsabilità, gli interessi, i poteri e i comportamenti che concorrono a rendere oggi irrilevante la qualità e, più in generale, il ruolo del progetto nelle trasformazioni territoriali. 

É un fatto riconosciuto che l’annullamento delle tariffe professionali, i requisiti richiesti nelle gare per affidamento di incarico da parte delle Pubbliche Amministrazioni e il moltiplicarsi di protocolli settoriali che prevedono prestazioni prevalentemente compilative (certificazioni ecc.) hanno cambiato radicalmente la natura, l’organizzazione del lavoro e l’immagine sociale delle professioni del progetto, in una direzione che certo non può (né vuole) avvantaggiare la qualità della Architettura. 

Non mi pare inutile poi aggiungere qualche riflessione su altri meccanismi, presenti nello scenario attuale, che si contrappongono alla centralità del progetto, vanificando ogni tentativo di rivendicarne qualità, sostenibilità, sicurezza e valore cogente.

In primo luogo, è un dato di fatto che nei bilanci comunali prevalentemente disastrati, compaiano ben poche voci attive oltre agli oneri di costruzione; diventa in questo modo vitale la capacità di attirare nuovi insediamenti e rendere quanto più possibile fluidi i percorsi di approvazione, in una feroce competizione con altri comuni, per attirare operatori immobiliari sostenuti da solide risorse finanziarie, perlopiù esterne a quel territorio. Operatori che privilegiano investimenti sicuri, collaudati da logiche commerciali consolidate, più che da lungimiranti elaborazioni di scenari futuri difficilmente valutabili. 

Che questo meccanismo produca esiti spesso divergenti con le necessità di riequilibrio dell’ambiente e del territorio, è cosa talmente evidente, ed i suoi effetti talmente estesi da lasciar affiorare il sospetto che, tra le cause storiche (principale attore di questo indirizzo fu la XVa Legislatura, Governo Prodi) della progressiva riduzione dei conferimenti dello Stato alla finanza locale, possa esserci stata anche qualche programmatica intenzione di creare le condizioni affinché fosse reso accessibile al mercato anche il vasto patrimonio di beni di proprietà pubblica.

Di fatto, in questo modo, oltre a produrre una irragionevole espansione del territorio edificato e a distorcere il mercato immobiliare, si sottraggono alle Pubbliche Amministrazioni i poteri di indirizzo e di selezione qualitativa: il più illuminato degli assessori o dei dirigenti comunali, difficilmente è in grado di esprimere un parere critico nei confronti di un progetto di dimensioni consistenti, sottraendosi al ricatto dei developer, che minacciano di trovare altrove migliore accoglienza per le proprie iniziative, e di versare in altre casse un flusso di ossigeno indispensabile per il funzionamento dell’istituzione.

Altro dato acquisito è la ridondanza dell’apparato normativo, degli organi di tutela e controllo, del carattere settoriale dei loro campi di interesse, del sovrapporsi di disposizioni farraginose, a volte confuse e contraddittorie, in cui il progetto deve districarsi. A questo occorre aggiungere vincoli di tempo, di costo e di merito sempre più compressi, che rendono ancora più angusta la gabbia in cui è rinchiuso il progetto, (e che ne indeboliscono la legittimazione sociale) contraendo spazi e tempi necessari ad una elaborazione meticolosa, alla meditata esplorazione di nuove strategie e nuovi linguaggi.

Un terzo elemento, oggi ai margini della scena, ma capace di produrre enormi sconquassi, è il progressivo annullamento di confini tra ruoli professionali che, nella ormai dimenticata liturgia delle professioni liberali, nascevano come non sovrapponibili: il progettista che opera nell’interesse del Committente, ma che è contemporaneamente responsabile della qualità complessiva del territorio, inteso come “bene comune”; il costruttore che legittimamente opera secondo la logica di impresa; il controllore (obbligatoriamente presente negli appalti pubblici), inteso come figura terza, cui spetta il compito di verificare, nell’interesse della collettività, che le opere siano state effettivamente eseguite, dal punto di vista tecnico, contabile, amministrativo, a quanto prescritto in sede di appalto, entro la cornice del quadro normativo generale. Si aggiunga la figura del gestore, qualora l’Amministrazione appaltante decida di ricorrere al project financing, affidando ai soggetti promotori anche la gestione delle opere, per un periodo sufficiente a compensare, con i profitti della gestione, i costi di realizzazione. Alla fine del periodo concesso, il bene sarà restituito all’Ente proprietario, ma è evidente che, in mancanza di un controllo minuzioso e intransigente da parte della pubblica proprietà, il progetto architettonico, i caratteri funzionali, i criteri costruttivi, le modalità di gestione saranno state adattate dal concessionario alla propria convenienza operativa ed economica, piuttosto che a quella della proprietà pubblica; e comunque, quando il bene sarà restituito dopo molti decenni di utilizzo, in probabili condizioni di usura, sarà completamente mutato il quadro temporale che aveva, in origine, indotto a promuovere le opere e a definirne la destinazione e i criteri di trasformazione.

La categorica distinzione tra ruoli che concorrono alla realizzazione di una architettura in senso generale, nello spirito originale delle norme, stabiliva un vincolo assoluto nel campo delle Opere Pubbliche, ma costituiva un riferimento cui potevano uniformarsi anche opere private. Oggi, con il dilagare delle deroghe, delle integrazioni, delle abrogazioni, delle emergenze, dei commissari straordinari e del ricorso al project financing, per attivare a qualunque costo opere di “pubblica utilità”, si è di fatto compiuta una radicale deriva delle prerogative delle Pubbliche Amministrazioni, che comporta la perdita del controllo sull’intervento, finanche sulla sua sicurezza e sulla conservazione delle sue caratteristiche nel tempo. 

Contribuendo inoltre ad avvalorare la narrazione secondo la quale, per semplificare le norme, aprire più velocemente i cantieri e avviare la ripresa economica, sarebbe sufficiente annullare ogni procedura di controllo, portando a condizioni estreme il difficile rapporto che storicamente accompagna Giustizia e Impresa. 

Se poi davvero si intendesse affermare la rilevanza dell’architettura nel garantire una qualità diffusa dell’ambiente e del territorio, occorrerebbe allora indicare quali siano i soggetti trainanti, cui affidare la responsabilità di avviare il processo e innescare un volano virtuoso; e questo compito non potrebbe che spettare in primo luogo alle Pubbliche Amministrazioni, che dovrebbero rendere ogni loro iniziativa sul territorio e sul patrimonio edificato un modello di riferimento, rappresentazione del livello più elevato e completo di elaborazione progettuale, di corretta esecuzione o quanto meno di controllo dell’intero ciclo di vita delle opere. A tale obiettivo dovrebbe allora corrispondere la realizzazione di strutture tecniche con elevate competenze, in grado di affrontare compiti non solamente amministrativi, quanto di programmazione, valutazione, gestione e progettazione delle opere. 

Ma, mentre le Linee Guida invocano un “approccio olistico, integrato e multidisciplinare” al contrario, oggi le Istituzioni intervengono concretamente nel campo dell’Architettura attraverso iniziative riduttive e provvedimenti di natura rigidamente settoriale, dove il valore strategico del progetto, inteso come pluralità di risposte possibili ai requisiti richiesti, è soffocato dal prevalere di soluzioni standardizzate ed imposte, come nel caso del Superbonus per l’efficientamento energetico.  In questo dispositivo, anziché indicare gli obiettivi e le prestazioni richieste e inquadrare il tema nella prospettiva vasta degli strumenti capaci di ridurre il bilancio energetico di sistemi complessi (isolamento, ma anche ventilazione naturale, energie rinnovabili, riciclo, cantieri a secco, riduzione dei trasporti di materiali, flessibilità d’uso, trattamento del suolo, del verde e del sistema delle acque…) si propone la coibentazione a cappotto come soluzione indifferenziata, per garantire la sostenibilità di un tessuto edilizio che è invece eterogeneo, con caratteristiche storiche e tipologiche diverse, condizioni d’uso diverso, climi e ambienti diversi, valenze progettuali diverse, accettando come inevitabile“danno collaterale” la cancellazione di opere o  tessuti edificati moderni e contemporanei non coperti da specifici vincoli….

Un mercato maturo – dove la domanda espressa dalla committenza sia in grado di apprezzare anche una elevata qualità intellettuale e figurativa del progetto, una idea appropriata dell’abitare, l’abilità di sfruttare i valori espressivi dei materiali e delle tecnologie, la capacità di intuire e fornire risposte anche a domande inespresse o non rappresentate – nasce nella misura in cui il tema dell’architettura sia in grado di assumere, erga omnes, un elevato statuto culturale, un valore condiviso e riconosciuto, inserito nei processi formativi, diffusamente trattato dai media al pari di altre forme espressive, praticato nell’ambiente costruito in cui si svolgono le nostre vite quotidiane, accessibile ai comportamenti abitativi diffusi (piuttosto che involucro glamour come scena per pubblicità di élite). Non solo, dunque, tutela dei tessuti storici dunque, quanto piuttosto vincoli estesi ad ogni edificio e tessuto edificato in cui siano riconoscibili evidenti elementi qualitativi di architettura.

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore» questa nota frase, pronunciata da Peppino Impastato – giornalista e attivista politico impegnato nella lotta contro la mafia e lo sfruttamento del proletariato meridionale, assassinato dalla mafia nel 1978 – ci spiega con immediatezza il rapporto tra “bellezza” (categoria che personalmente affronto sempre con molta cautela) e civiltà dell’abitare. 

C’è poi un nesso particolare tra qualità dell’architettura e partecipazione che pare sfuggire anche alle “linee guida”, dove la questione dei processi di democrazia partecipativa pare ricadere nello stesso cliché celebrativo, consolatorio e generico cui troppo spesso ricorre la politica per guadagnare consenso: se invece, al valore di competizione intellettuale dei concorsi di architettura (di cui le linee guida richiamano la necessità) si potessero efficacemente associare momenti di reale partecipazione, forse allora i concorsi perderebbero le loro deformazioni narcisistiche ed elitarie e potrebbero radicarsi nella percezione collettiva come preziosi momenti di democrazia allargata.  Si potrebbe davvero sostituire agli ingenui e polverizzati “desiderata”, raccolti attraverso incontri estemporanei, percorsi di ricognizione e confronto organizzati sistematicamente e criticamente, tanto nella definizione del programma e dei requisiti, quanto nella valutazione degli esiti progettuali. 

Se poi, nei concorsi, i progettisti potessero muovere i loro percorsi progettuali a partire da un mosaico di bisogni e desideri espressi da chi abiterà quei luoghi, ne riconducessero i frammenti ad una comune ipotesi di senso e ne sottoponessero le diverse prefigurazioni possibili al giudizio degli stessi soggetti (come sarebbe quel luogo se ci mettessimo…..) si potrebbero realizzare in questo modo dei “laboratori di architettura partecipata” attrattivi e utili tanto per i progettisti, quanto per gli abitanti e per le Amministrazioni. Ma questo non credo sia reso possibile, ad oggi, dalle regole di anonimato previste nei concorsi di Architettura.

A proposito! Piuttosto che compiacersi dell’approvazione di enunciati di principio, varrebbe la pena interrogarsi su quale sarà il ruolo del progetto di architettura nella redazione del Next Generation UE, dal momento che la salvaguardia di territorio e ambiente ne costituisce uno dei principali obiettivi.

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