Bellezza
“La Bellezza non è mai stata, nei secoli, un valore assoluto. Fisica o divina, e stata di volta in volta armonica o dionisiaca, associata alla mostruosità nel Medioevo e all’equilibrio nel Rinascimento, sino a farsi artificio e citazione nel Novecento.” (Umberto Eco, Storia della bellezza, Bompiani 2012)
Che il concetto di bellezza sia indissolubilmente associato al corpus disciplinare dell’architettura è cosa indiscutibile, quanto meno a partire dal ricorrere frequente della triade vitruviana, quando si tenta di stabilire punti di riferimento stabili nella scena indeterminata e mutevole dell’architettura.
Il suo concetto affonda, insieme ad altre categorie dello pensiero come verità, ragione, giustizia, nell’universo ideale della classicità, nell’aspirazione a individuare riferimenti saldi, universali e immutabili, attraverso la consacrazione di valori assoluti, che assicurino stabilità ad un modello sociale.
Senza nemmeno tentare di indagare il significato di quel concetto, per tenermi a rispettosa distanza dall’autorevole dibattito che le varie discipline hanno contribuito a elaborare sull’analisi storica e semantica, sulla variazione dei paradigmi che hanno accompagnato nel tempo il mutare delle condizioni sociali e dei climi culturali, sul valore “oggettivo” o “soggettivo”della bellezza, sul suo essere il prodotto dell’intuizione piuttosto che dell’ingegno, o della osservanza di canoni prestabiliti o ancora sui processi di elaborazione mentale che conducono a generare e a percepire la bellezza, mi limiterò, se ciò può incontrare l’interesse di qualcuno, a segnalare la mia personale diffidenza nei confronti di ogni ricorso a categorie del pensiero descritte come “assolute, immutabili e universali”.
Ritengo inoltre possa essere utile ricordare che solo in limitati periodi della storia (tra cui la contemporaneità) gli architetti hanno trascurato il progetto di palazzi, chiese, fortezze e monumenti, per occuparsi dei temi insediativi che riguardano l’umanità intera, nel suo dispiegarsi sociale e territoriale; solo in limitati periodi della storia i compiti dell’architetto sono stati trasferiti, dalla rappresentazione del potere del “Principe”, alla rappresentazione di poteri plurali, eterogenei per scale geografiche, per intensità e valori, difformi per livelli di concentrazione o dispersione, per interessi individuali o universali; alla rappresentazione cioè di ciò che – almeno nei suoi meccanismi formali – definiamo “Democrazia”.
E ciò non è poco per comprendere quanto vaste siano le implicazioni che discendono dall’interagire di architettura e bellezza (nella misura in cui viene assegnata alla categoria dell’assoluto) in ragione del rapporto indissolubile tra architettura e potere.
Osservo banalmente – e con una certa insofferenza – che nella scena quotidiana, di bellezza si parla sin troppo e a sproposito, mentre ben poco ci si interroga, con prudenza, con curiosità, con spirito di ricerca, sul come, dove e perché la bellezza possa davvero costituire una opportunità per allargare la consapevolezza dei nostri stessi comportamenti, delle nostre emozioni, dei nostri desideri, dei rapporti sociali e di potere che incontriamo lungo la nostra esistenza.
Sin troppo ne parlano i politici che, inaugurando opere di architettura, ricorrono affannosamente alla categoria della bellezza come ultimo, disperato appiglio per giustificare l’opera compiuta; sin troppo ne parlano i legislatori quando annunciano provvedimenti di tutela del patrimonio artistico e culturale; sin troppo ne parlano i ”non addetti ai lavori”, quando si ritrovano invischiati in questioni che richiamano i temi dell’architettura; sin troppo ne parlano gli architetti stessi, quando tentato di ricostruire una legittimazione sociale e una autorevolezza intellettuale dissipate da una categoria professionale che, almeno nella sua identità pubblica e collettiva, troppo disinvoltamente si è lasciata trascinare dall’opportunismo, dal conformismo e dalla mediocrità.
Significativa a questo proposito l’iniziativa con cui il Governo Renzi annunciava una nuova azione a tutela del patrimonio culturale:
“I monumenti devono «ripartire», come se fossero aziende; le chiese non si restaurano, ma si «ristrutturano»; i siti restaurati con denaro pubblico possono venire affidati in «gestione» indifferentemente a gruppi di cittadini o a «imprese». Alla tutela pubblica sistematica del patrimonio diffuso (prescritta dall’articolo 9 della Costituzione) subentra una sorta di lotteria in cui i cittadini sono invitati a rivolgersi direttamente al capo, ormai libero dal corpo intermedio dei professionisti della tutela e unico difensore della «bellezza». (Tomaso Montanari su Eddyburg)
Bellezza è certo parola preziosa che, citando Stendhal, è «promessa di felicità», ma è allo stesso tempo eterea, sfuggente, rimanda a miti e misteri che restano prerogativa di pochi eletti, si rivolge a un passato idealizzato o ad un futuro immaginato libero dai vincoli e dai disagi del presente; la bellezza, si sa, è un lusso, un fattore più ornamentale che sostanziale, che possono concedersi le élite per ostentare la loro opulenza, ma che costituisce un surplus insostenibile nell’immediato presente delle continue emergenze globali.
Insomma, concentrare l’attenzione su un concetto generico, astratto e contemplativo di bellezza rischia di diventare un alibi per evitare di entrare nel merito di temi ritenuti esclusivo appannaggio (o ossessione) di specialisti; un ricorso affrettato all’indefinibile, per sfuggire alla fatica e alla responsabilità di definire, di attribuire effettivo valore, di riconoscere il prodotto dell’intelligenza, del lavoro, del rischio, della fatica di sperimentare e rincorrere molecole di verità, di efficacia e di giustizia.
“Gli edifici non sono solamente oggetti visivi senza legami con concetti che possiamo analizzare e quindi valutare. Gli edifici parlano, e parlano di argomenti che si possono comprendere facilmente. Parlano di democrazia e aristocrazia, di disponibilità e arroganza, di accoglienza e minaccia, di partecipazione al futuro e nostalgia per il passato.” (Alain de Botton, Architettura e felicità, Guanda, 2006)
Wendell Berry, uno dei padri della fiorente cultura del “food” come comportamento consapevole, afferma che «mangiare è un atto agricolo», che un gesto quotidiano, necessario alla vita dell’uomo, lo rende libero solo nel momento in cui egli si rende conscio e responsabile del campo infinito di interferenze, di processi e conseguentemente di scelte, che collegano il suo cibo con la vita passata, presente e futura del pianeta che abita.
Se poi tutto questo concorre a far sì che il cibo, oltre che sano, nutriente, sufficiente e sostenibile, soddisfi i nostri sensi, attragga il nostro interesse e mantenga la promessa di istanti di felicità…..
Se, come è avvenuto, questa considerazione è stata capace di incidere così efficacemente sul clima culturale dei nostri ultimi anni, allora ci si potrebbe arrischiare a dire che il gesto quotidiano dell’«abitare», dell’ imprimere l’orma del proprio corpo sull’ambiente che ci ospita, del manipolare lo spazio attraverso i propri comportamenti individuali e collettivi, «è un atto costruttivo», che presuppone una catena bidirezionale di consapevolezze e di responsabilità condivise – alla scala globale – tra chi abita, chi costruisce, chi progetta, chi mantiene, chi demolisce, chi traccia le norme, chi gestisce i processi.
Se poi tutto questo concorre a far si che l’ambiente costruito, reso sano, ospitale, utile, distribuito equamente nel pianeta secondo i bisogni e le legittime aspirazioni, non possa che produrre bellezza, ossia rendere più ricca e completa la nostra esperienza di vita …