Considerazioni sul disegno di legge regionale in materia di semplificazioni.
A mali estremi, estremi rimedi. E, in tempi di crisi economica, a maggior ragione come quella, devastante, provocata dalla pandemia, si tende a riproporre misure sperimentate. Tra tutte, il rilancio dell’edilizia, comunque sia, nella convinzione che sia il comparto che ha maggiori ricadute intersettoriali e quindi con maggiori possibilità di stimolare investimenti.
C’è del vero in tutto questo (“va tutto bene quando l’edilizia va bene“), ma le tante esperienze mal riuscite del passato dovrebbero aver insegnato che è meglio essere selettivi e non precipitarsi a offrire sostegno indifferenziato a qualsiasi iniziativa. Per non correre il rischio di tornare alle vecchie abitudini, favorendo semplicemente ulteriori aggressioni al territorio, già devastato da un surplus di abitazioni e fabbriche vuote inimmaginabile e da una proliferazione indiscriminata di opere pubbliche inutili, eccessive o malfatte (si pensi alla scriteriata diffusione su territorio di rotatorie, che tanta parte del suolo agricolo hanno sottratto alla sua destinazione originaria).
La Giunta regionale del Piemonte ha messo a punto un disegno di legge volto alla semplificazione delle procedure e alla riduzione delle incongruenze, in materia di pianificazione urbanistica. Alcune di queste modifiche, ad un primo esame, sembrano ragionevoli e intervengono ad attenuare appesantimenti burocratici e superare difficoltà interpretative. Altre, invece, meritano particolare attenzione per il contenuto, laddove largheggia troppo nel consentire interventi forse troppo invasivi ed imprudenti.
Va messo in evidenza che i provvedimenti sono di due tipi: uno (dall’art. 43 al 57 contenuti nel capo II) che riporta norme temporanee con scadenza al 31 gennaio 2022; l’altro (dall’art. 58 al 64 contenuti nel capo III), che, sempre in materia urbanistica, introduce norme di semplificazione e coordinamento, destinate ad operare a regime, senza scadenza, valide anche in assenza della revisione organica della materia.
Gli argomenti sono diversi. Riguardano la semplificazione della documentazione delle varianti ai PRG, la riduzione dei tempi della conferenza di co-pianificazione e valutazione, l’incremento delle superfici territoriali o degli indici di edificabilità previsti dal PRG vigente, relativi alle attività produttive, direzionali, commerciali, turistico-ricettive. Vengono altresì aumentati i casi per i quali le modifiche non costituiscono variante. Vengono introdotte variazioni normative che consentono interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione anche con sagome diverse dall’esistente, mutamenti di destinazioni d’uso per gli edifici esistenti nella zona cimiteriale, possibilità di cambio di destinazione d’uso temporaneo e numerose semplificazioni procedurali.
Curioso, però, il fatto che numerosi articoli presentano contenuti che non appaiono coerenti con gli obiettivi dichiarati fin dal titolo dello stesso Disegno di legge e di cui occorrerà superare, in sede di conversione, le evidenti contraddizioni.
In via preliminare si può affermare che le misure previste potrebbero diventare ordinarie se riguardano semplificazioni comunque necessarie, ma non dovrebbero essere indirizzate ad un rilancio generico delle costruzioni. Occorrerebbe privilegiare solo quei settori dell’edilizia che si ritengono rispondenti alle nuove esigenze emerse con la diffusione della pandemia. E questo è un compito della politica.
In ogni caso, di seguito, alcuni aspetti paiono richiedere maggiore attenzione nell’esame del Disegno di legge.
Il DDL, in primo luogo, si preoccupa di affermare che la relazione illustrativa riporta “in termini generali” gli obiettivi della variante del PRG. In realtà quanto attualmente richiesto dalla legge urbanistica regionale è volto a fornire una giustificazione della variante, in modo che chi è chiamato ad approvarla disponga di tutti gli elementi utili per una corretta valutazione delle esigenze che inducono a variare il PRG vigente. Ciò non sembra indurre significative perdite di tempo da parte del progettista, fondandosi su informazioni in genere a disposizione del proponente o degli altri enti titolari del diritto di pianificare l’uso del suolo alle diverse scale. L’approccio suggerito, invece, fondandosi su «termini generali», può prestarsi a giustificare qualsiasi intervento, anche speculativo.
Tra gli allegati tecnici, poi, il DDL avanza la proposta di stralciare le schede relative alle aree interessate da nuovi insediamenti o da opere pubbliche e la relativa relazione geologico-tecnica, da produrre al momento di avvio degli interventi. In merito alle incongruenze di cui in premessa è però da sottolineare che «non sono considerati elementi essenziali le schede relative alle aree interessate da nuovi insediamenti», ma nella legge 56/1977 tale indicazione non è presente.
Più ragionevole è invece la proposta di ridurre gli elaborati cartografici necessari per le varianti strutturali dei PRG, essendo coerente con l’esigenza di ricondurre all’essenziale i supporti di descrizione del territorio, soprattutto quando rappresentano la duplicazione di materiale già prodotto in occasione di precedenti strumenti urbanistici generali.
Un secondo aspetto “sensibile” riguarda l’incentivo a costruire sotteso al DDL. In tempi di ampia disponibilità di fabbricati per tutte le destinazioni d’uso – moltiplicati oltre ogni limite ragionevole nel corso degli anni, anche quando la crisi edilizia era già ampiamente manifesta – non sembra necessario consentire, con un procedimento semplificato, di accrescere ulteriormente i volumi edificati, quando sarebbe molto più utile favorire il riuso degli edifici esistenti, per le utilizzazioni non residenziali (escludendo comunque la grande distribuzione laddove in un raggio circoscritto già operassero altri impianti).
A maggior ragione tale previsione risulta incomprensibile se riferita ad aree non interne a centri o nuclei abitati, contraddicendo il principio (inserito nel dispositivo proposto) che l’incremento volumetrico deve essere correlato all’ampliamento di un’attività esistente. Questa, se già insediata, in virtù di quale immotivata previsione ha potuto localizzarsi all’esterno del centro abitato stesso? In più, quale insediamento posto lontano dai centri abitati può già fruire di opere di urbanizzazione primaria sufficienti a soddisfare il carico urbanistico che porterà la sua addizione?
Va osservato, comunque, che le proposte di incremento dei «limiti delle superfici territoriali edificabili o degli indici di edificabilità previsti dal PRG vigente» interessanti varianti parziali, per come sono formulate, non sono volte solo alla semplificazione-contenimento del processo pianificatorio, ma anche ad incrementare le percentuali di ampliamento consentite per le aree interessate, obiettivo sicuramente non finalizzato alla semplificazione del processo di piano ed a contrastare «l’emergenza indotta dal COVID-19»
Problematico sembra anche consentire, come il DDL vorrebbe, interventi di demolizione e ricostruzione con modificazione della sagoma esistente. Si tratta di una misura che, da un lato, pone rimedio ad una regola spesso immotivata e di cui si sentiva la mancanza. Ma ciò giustifica evidenti alterazioni del patrimonio edilizio storico, un rischio che è aggravato dalla ulteriore previsione di assentire tale intervento anche quando non previsto dallo strumento urbanistico vigente.
È da rilevare che attualmente la legge urbanistica prevede che il PRG disciplini gli «interventi necessari alla migliore utilizzazione funzionale e sociale e alla tutela del patrimonio edilizio esistente» con interventi di ristrutturazione edilizia senza demolizione e ricostruzione.
Proprio per questo dovrebbe essere ribadita, nei centri storici e per gli edifici posti in aree esterne ma di valore comunque storico o documentario, l’impossibilità o l’irrealizzabilità di interventi di sostituzione volti a modificare la sagoma originaria.
Altro tema delicato riguarda la tutela del paesaggio. Per il perseguimento di questo obiettivo si ritiene che non si possa assolutamente affidare – come proposto da DDL – a compagini estremamente diverse quali le commissioni locali per il paesaggio, talora piuttosto raccogliticce, a seconda dell’importanza loro attribuita dall’ente che le ha costituite, un compito così delicato. Si rischierebbe di produrre pareri conflittuali, incoerenti e spesso dannosi o immotivati. L’articolo fa presente infatti che “L’espressione dei pareri di competenza della commissione regionale per gli insediamenti d’interesse storico-artistico, paesaggistico o documentario è attribuita alle commissioni locali per il paesaggio …“.
Su questo argomento (la tutela del paesaggio culturale in generale, che rappresenta uno dei capisaldi della cosiddetta eccellenza culturale italiana) non si può transigere. I pareri devono essere affidati ad una struttura centrale ed autorevole. Semmai si potrebbe consentire la costituzione di commissioni sovralocali di dimensione provinciale, ma queste dovrebbero comunque operare in stretto coordinamento per esprimere comunanza di giudizio.
Stante il carattere degli edifici interessati (interni al centro storico) la proposta non appare adeguata anche perché, spesso, le commissioni locali sono condizionate dagli interessi contingenti più che dal valore architettonico-testimoniale del patrimonio edilizio.
Ambigua è invece la proposta normativa con cui si vuole consentire un uso provvisorio diverso di immobili e spazi urbani: insieme si prescrive che ciò non deve comportare il mutamento della destinazione in atto. In ogni caso non sembra ragionevole, anche in assenza di opere edilizie, escludere il rilascio di titolo abilitativo.
A maggior ragione, se l’uso temporaneo può essere protratto fino a cinque anni, è difficile che ciò possa avvenire in assenza di opere edilizie. E, in ogni caso, viene richiesta la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria che difficilmente potranno essere eliminate quando la nuova destinazione provvisoria verrà meno. Infatti, è prevista la possibilità che i nuovi usi divengano stabili, previo adeguamento degli strumenti urbanistici. Ma tanto varrebbe operare immediatamente con la variante urbanistica necessaria.
Utile invece la parte del DDL che riprende e amplia la casistica delle tolleranze introdotte dall’art. 34 del DPR 380/2001, eliminando possibili fonti di contenzioso, spesso dovute non alla volontà di operare abusivamente da parte del detentore del titolo edilizio o dell’impresa, ma a imperfezioni realizzative discendenti da un progetto imperfetto o poco accurato.
L’entità della tolleranza (2%) considerata accettabile è certamente sopportabile, soprattutto per i volumi fabbricati di non grande dimensione. Forse sarebbe opportuno porre un limite dimensionale non superabile, indipendentemente dall’ampiezza del fabbricato o dall’estensione dell’area edificata. A tale scopo pare opportuno meglio precisare il concetto di “modesta entità”.
Pare invece da escludere la tolleranza ammessa per la mancata realizzazione di elementi architettonici non strutturali. Spesso sono questi che caratterizzano non solo l’ingombro dell’edifico, ma la sua gradevolezza e il suo inserimento ambientale e quindi fanno parte inseparabile della sua integrità. Anche perché andrebbe precisato quali sono gli elementi architettonici che possono non essere realizzati e come misurarne l’entità.
Infine, inevitabile, viene riproposta dal DDL l’annosa questione dell’uso o del riuso dei sottotetti. Un sottotetto, a meno che l’edificio abbia una copertura piana, dovrebbe essere sempre legittimato insieme al progetto approvato. Come può quindi essere abusivo? E, in ogni caso, se è stato realizzato nel rispetto delle norme dello strumento urbanistico, difficilmente possiederà i requisiti igienico-sanitari necessari per renderlo abitabile, perché non nasce a tale scopo.
Quindi la norma pare inutile, a meno di introdurre eccezioni, quantomeno per gli edifici realizzati in località extraurbane e in centri minori, in cui le tipologie abitative consentivano ridotti limiti di altezza interna e di soleggiamento e in tempi in cui tali requisiti non erano imposti.
La proposta di modifica recita infatti “Il recupero del sottotetto è consentito purché ne risulti la legittima realizzazione alla data di entrata in vigore della presente legge; il sottotetto realizzato successivamente è recuperabile ai sensi della presente legge trascorsi tre anni dalla realizzazione oppure ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione”.
Al fine di tutelare quanto meno il patrimonio edilizio di valore storico-artistico si ritiene opportuno evitare alterazioni alla sagoma degli edifici con interventi non autorizzati, per cui sembra più ragionevole proporre di modificare il comma come di seguito: “Il sottotetto realizzato successivamente è recuperabile ai sensi della presente legge trascorsi tre anni dalla realizzazione oppure ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione. Tale intervento non è consentito nel centro storico e negli edifici posti all’esterno ma classificati dal PRG come edifici di valore storico-artistico”.
Quanto al resto del DDL, cui si rimanda per una lettura analitica, si può così sintetizzarne la valutazione.
– Nella fascia di rispetto dei cimiteri, si vorrebbero ammettere i cambi di destinazione d’uso degli edifici esistenti. Ma andrebbe tenuta in conto però la possibile richiesta futura di ampliamento delle sedi cimiteriali esistenti, che verrebbe meno se la fascia di rispetto diventasse troppo esigua. Pertanto la sua riduzione va adeguatamente sorretta da una previsione realistica sulle esigenze di espansione del cimitero.
– Utile la deroga da introdurre riguardante le distanze tra i fili di fabbricazione, per dirimere definitivamente le differenze interpretative che emergono da parte degli uffici tecnici comunali. La norma dovrebbe essere permanente e non temporanea e essere accompagnata dai disegni esplicativi utili a chiarire il concetto espresso.
– Cautela richiede anche l’ipotesi che i procedimenti di rilocalizzazione, ove comportino variazione dello strumento urbanistico generale, possano essere approvati anche mediante variante semplificata. Dipende dalla località in cui fare ricadere la rilocalizzazione. Andrebbero escluse tutte le aree extraurbane o ad incipiente urbanizzazione, per evitare lo stimolo ad una continua sottrazione di suolo agricolo o naturale.
Un’ultima considerazione. Ogni semplificazione, che il DDL vorrebbe introdurre, del processo di formazione degli strumenti urbanistici o dei procedimenti volti al rilascio di titoli abilitativi, dovrebbe essere attentamente verificata, per evitare che le amministrazioni competenti si trovino nell’impossibilità di rispettare termini inopinatamente ridotti, causa la loro insufficiente dotazione di strutture tecniche istruttorie e di controllo.
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