Cellule specializzate e cellule duttili

Che le città e i territori non siano composti da un tessuto omogeneo, isotopo e indifferente a vocazioni, a logiche gerarchiche, simboliche o funzionali, che a plasmare quel tessuto provvedano principalmente le specificità climatiche e orografiche, le matrici parcellari, i flussi di persone, merci, dati, è un concetto ben presente fin dai primi insediamenti umani; dalle città murate allo Zoning novecentesco, dalle New Town alle metropoli globali, gli urbanisti, i sociologhi, i topografi, i governanti locali e gli operatori del Real Estate hanno avuto sempre ben chiara la nozione di “insediamento” come sistema organico composto da cellule altamente specializzate (per delimitare gli insediamenti artificiali dal territorio naturale, per l’esercizio e la rappresentazione del potere, per la produzione e il commercio, per la residenza e i servizi, per controllare il clima e garantire la qualità ambientale…), cui si somma necessariamente una rete fittamente vascolarizzata di infrastrutture e di spazi pubblici che assolve a funzioni di collegamento e di coesione sociale. Solo quest’ultima categoria di spazi, che garantisce l’accesso ai diversi organi specializzati della città e ne ospita le rappresentazioni collettive, è composto da cellule a debole specializzazione, di uno spazio duttile che può adattarsi facilmente ad assolvere a funzioni diverse: mobilità, aggregazione, cultura, gioco, tempo libero, verde, luogo di espressione di identità delle comunità politiche, religiose, etniche, di genere… 

In effetti, è proprio lo spazio pubblico l’elemento più sensibile a registrare i cambiamenti sociali, è quello su cui si affacciano le attività aggregative, in cui per prima si rappresenta la pluralità della polis; in quanto “pubblico” è quello su cui si esercita nel modo più diretto il controllo, la “cura” e l’indirizzo del governo delle città. Forse proprio per questo lo spazio pubblico è oggi al centro delle politiche di trasformazione urbana: «L’agorà è l’unico spazio in grado trasformare le sofferenze individuali in questioni pubbliche rilevanti, perché favorendo un processo di appartenenza da parte dell’individuo del tessuto sociale in cui è inserito, consente un particolare processo di appropriazione delle condizioni esistenziali comuni e collettive in cui si generano le sofferenze e le emergenze di una singola esistenza, non lasciata sola nell’affrontare e riflettere sul proprio infausto destino» (Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, 1999.)

Da città-fabbrica a città-merce

La città moderna, conformata alle esigenze della produzione industriale, organizzata in zone funzionalmente omogenee (Zoning), su sequenze temporali scandite e distinte (produzione/riproduzione, lavoro/riposo, giorno/notte, aperto/chiuso) e in classi sociali ordinate e definite, ha sedimentato stabili radici ideologiche, ha storicamente prodotto corpi sociali solidamente coesi, ha alimentato energie che hanno sostenuto per almeno mezzo secolo un modello urbano rigorosamente coerente. 

Nella città post-fordista, al modello Zoning si sostituisce il modello Mixitè, ossia la compresenza, nelle diverse porzioni urbane, di funzioni eterogenee per incentivare le interazioni positive spalmate sull’intero arco temporale. Ad un fitto e intricato scambio di informazioni corrisponde una fitta rete di legami tra aspetti funzionali, sociali e morfologici. 

Ma oggi, complice il sovrapporsi delle diverse crisi globali (economica, climatica, sanitaria), alla percezione ottimistica del vitalismo urbano, all’immaginario rassicurante del progresso, dell’incontro, del confronto, si è sostituita quella, allarmante, della congestione caotica, della dimensione spietata, della distanza incolmabile tra i luoghi scintillanti della centralità e quelli desolati e ostili della emarginazione, della precarietà abitativa, della minaccia di condizioni ambientali sempre più avverse. Dopo essere stata riconosciuta come luogo delle massime opportunità del lavoro e della emancipazione sociale, la città del neoliberismo abbandona il paradigma dell’efficienza funzionale e della razionalità della norma per ritrarsi nella dimensione dell’apparire, la “città-fabbrica” diventa “città-merce a partire dal glamour indistinto dei suoi luoghi centrali. Servizi, infrastrutture, informazione, facilities, da fattori dinamici rischiano di diventare un costo sociale passivo se non sono sostenuti da una integrazione con il consumo, dalla presenza di spazi commerciali (stazioni, stadi…) o da una ricaduta sui valori immobiliari. Riportati alla realtà i vantaggi sovrastimati delle reti virtuali, i concetti fisici di “limite” e di “distanza” tornano a diventare una concreta minaccia per la qualità urbana. Come è stato evidenziato nella indagine «40 anni di salute a Torino – Spunti per leggere i bisogni e i risultati delle politiche» pubblicato da Inferenze nel 2017, percorrendo idealmente la linea 3 che collega la collina di Torino con la periferia Nord si registra una drammatica differenza nella attesa di vita dei residenti: ogni chilometro percorso verso Barriera di Milano corrisponde – in base agli studi epidemiologici – a cinque mesi di vita in meno per chi abita in quest’ultima area.

Ma quello sanitario è solo l’aspetto più allarmante nell’arco ampio di criticità e incoerenze che emergono dalla città contemporanea. Se nella città fordista è la stessa divisione del lavoro a garantire una struttura sociale definita e coesa, la condizione più appropriata alla città del neoliberismo è invece quella che Bauman definisce «deserto sovraffollato», luogo di solitudine dell’individuo, di allentamento dei legami sociali, di paura e di disorientamento. (In Carmen Leccardi “Individualmente insieme”, Diabasis, 2008), 

Mappe e paesaggi

La configurazione della città fordista, in quanto organismo composto di settori omogenei ordinati dalla pianificazione, individuava nella grande scala e in quella intermedia la sua rappresentazione più immediatamente leggibile attraverso una astrazione: la mappa del territorio. Quella post-fordista – congedata la razionalità pianificatrice che impone un ordine all’eterogeneità, accolta la Mixitè come principio regolatore – appare allora prevalentemente leggibile alla scala minuta, quella che coincide con la percezione diretta di ciascun abitante o city user, nella misura della sua accessibilità alle funzioni utilizzate con maggiore frequenza, entro gli orizzonti del suo personale progetto di vita. 

È probabilmente da questo tipo di esperienza urbana che nasce il concetto di prossimità come possibile risposta al disorientamento e alla disuguaglianza; ossia la riorganizzazione della città a partire da come è vissuta da ciascuno di noi, in quella dimensione quotidiana che offre temporaneo riparo dall’aggressione caotica e alienante della città contemporanea. Non necessariamente la presenza di questa piega individualista comporta una svalutazione delle strategie della prossimità, che hanno dimostrato di poter incontrare esigenze reali e ricorrenti, ricostruire relazioni virtuose tra spazi e persone e attivare progettualità condivise anche nella disgregazione della città contemporanea.

Ma la città contemporanea è difficile da identificare anche dal punto di vista della  sedimentazione di una forma riconoscibile – se non per il fatto che è successiva a qualcosa d’altro cui non corrisponde più – risultato della transizione da luogo dalla produzione di merci essenziali a luogo per il consumo di merci prodotte altrove e per le quali occorre costruire una domanda. In essa si sovrappongono scale, immaginari, linguaggi, caratteri e chiavi interpretative di cui non è ancora maturata una lettura organica. Alcuni fenomeni ricorrenti sono interpretabili solo a scala globale (clima, migrazioni, epidemie, conflitti, informazioni, modelli…) altri a scala territoriale (centro/periferia, città/campagna, rilevanza/marginalità…), altri a scala locale (integrazione, accoglienza, accessibilità, tipologie edilizie, regolamenti….). 

Esiste poi ancora un’altra città che in questi ultimi decenni è cresciuta, su un proprio layer autonomo ma fittamente intrecciato con le trame della città fisica, che può fornire un contributo formidabile tanto al suo progresso quanto alla crescita delle sue contraddizioni: la città digitale, come forma specifica di interazione sociale, aggregato di realtà insieme organizzate e spontanee, dilatate ed eterogenee e insieme esclusive e uniformate, di soggettività fragili e di solide logiche imprenditoriali. Cosa ancora diversa dalla Smart-city, la cui narrazione spesso sottintende una deriva tecnocratica, una acritica e astratta fiducia nei sistemi digitali come superamento delle inefficaci trasformazioni proposte dai processi politici. All’interno della governance di amministrazioni paralizzate dalla crisi, la retorica smart – percepita come immateriale, razionale e a buon mercato – assume sempre più spesso il ruolo di alternativa a concreti investimenti sulla qualità urbana.

Nella città contemporanea coesistono più modelli urbani

Sullo stesso tessuto si sovrappongono i borghi inclusivi, le periferie desertificate, il glamour delle città globali, sedimentati in tempi e modi diversi e che corrispondono a logiche e scale relazionali diverse; per generare effetto urbano positivo, per contrastare le diseguaglianze, per produrre interazione sociale, nessun modello deve prevalere sugli altri e tutti devono poter interagire intensamente tra di loro.

La città dei borghi è una città frantumata in sottoinsiemi relativamente autosufficienti, al di sotto della soglia di congestione, dove si legge la presenza di nuclei di centralità minore, eredità di storia e di legami sociali che assicuravano accoglienza e sicurezza. 

La città moderna, fordista, conformata al modello industriale, ripartita in aree mono-funzionali e mono-sociali tenute insieme da un efficiente e vasta rete infrastrutturale, è ancora perfettamente leggibile nella stratigrafia dei tessuti urbani, ma i suoi spazi hanno perso funzioni e identità, le sue regole rigorose sono ormai inutili e il suo tessuto sociale è scardinato e sconvolto. 

La “downtown” scintillante di vetro e acciaio, attrattiva, densa, concitata, creativa, vivacemente proiettata nella globalità, è la città plesso, costantemente attraversata da intensi flussi di persone, merci, informazioni, ma anche esclusiva e straniante. 

Se questa sovrapposizione è reale, ogni abitante, a seconda del modello di città che si trova ad abitare, è esposto ad esperienze urbane diverse e frammentarie; i tentativi di ricomporle gravano pesantemente sulla mobilità, emarginano i segmenti di popolazione più fragili, disintegrano anche le forme più solide di aggregazione sociale. Esistono, almeno come residui di modelli urbani ormai inattuali, repertori di risposte pertinenti ai bisogni degli abitanti (decentramento, servizi sociosanitari, case di quartiere, grande distribuzione, parchi…), ma sono parziali, spesso insufficienti e dislocate secondo logiche incompatibili con la domanda di base, così come essa si distribuisce sul territorio. 

Prossimità

La città della prossimità si propone come riorganizzazione decentrata e integrata delle reti di servizi alle persone, che rendano accessibili entro distanze limitate tutte le attività necessarie a garantire la vita quotidiana: residenza, istruzione, amministrazione, servizi sociali, sport e tempo libero, cultura, approvvigionamento, spazi pubblici e verde urbano; un discorso a parte andrà fatto per la salute e il lavoro.

Una interpretazione radicale della prossimità potrebbe indurre a concepire una “città rifugio” ripartita in cellule il più possibile autosufficienti, tendenzialmente in grado di soddisfare e circoscrivere l’intera sfera delle esperienze umane. Anche l’ipotesi di distribuire in modo uniforme e generativo il mix di differenze che convivono nelle realtà urbane contemporanee (élite globalizzate, comunità locali, migranti etnici ed economici, studenti inquieti, anziani sedentari…) potrebbe arrivare a suggerire una composizione sociale uniforme delle singole cellule. La città assumerebbe in questo modo una sorta di geometria “frattale” in cui le cellule, de-gerarchizzate, tendenzialmente omogenee e statiche, riprodurrebbero ad ogni scala l’identica composizione funzionale del tutto. Una esperienza confinata all’interno di “bolle” incontaminate che rischierebbe di esaurire qualsiasi carica di innovazione, rinunciando ad ogni processo dinamico legato al confronto con realtà differenti.

Prossimità e piattaforme digitali

Giordana Ferri ed Ezio Manzini, nel presentare il programma del convegno abitare la prossimitá (Milano 2020) affermano che «La città dei 15 minuti non è la città dei borghi, come a volte si dice: è la città della prossimità e dell’intreccio virtuoso tra una densa maglia di reti corte locali, e di reti lunghe, cittadine e globali». L’orizzonte della prossimità comprende l’evoluzione verso forme sociali contemporanee, aperte e generative, costruite intorno a progetti di futuro piuttosto che arroccate su visoni regressive, chiuse e identitarie. Forme sociali generative che sono fisiologicamente favorite dalla rivoluzione digitale: «Le comunità ibride sono forme sociali contemporanee, costruite intorno a progetti, la cui esistenza è largamente dipendente dagli strumenti digitali di cui dispongono e che ne supportano le capacità e possibilità organizzative […]. Ne deriva che le nuove comunità sono tutte ibride perché tutte vivono in un ambiente ibrido, materiale e digitale. A sua volta, questo ambiente digitale è fatto di iper-luoghi. Cioè luoghi amplificati dalle tecnologie che vi si impiegano. Luoghi i cui confini operativi non sono quelli della prossimità fisica, ma sono luoghi a geometria variabile, i cui bordi dipendono da dove le tecnologie di cui si dispone permettono di arrivare.»

Dunque, alla “città della prossimità”, in grado di garantire un plafond di bisogni essenziali distribuiti capillarmente, si deve sovrapporre una “città plesso”, città della intensità dello scambio, delle opportunità che discendono dai nodi tra le reti di comunicazione e dall’incontro tra comportamenti, culture, economie diverse. Per stimolare il cambiamento, rompere margini di isolamento, spezzare la monotonia del consueto, opporsi alla deriva difensiva delle “identità identiche”, la piccola città dei luoghi e delle comunità integrate deve garantire un intreccio con la città vasta, interamente attraversabile, condivisa, dove si confrontano, si mescolano e a volte competono ”identità diverse”: stazione ferroviaria, aeroporto, stadio olimpico, ministero, università, centro ospedaliero ad alta tecnologia, cattedrale, monumento, museo, costituiscono episodi necessariamente rari, centralizzati, specializzati, che si aggregano solamente intorno a nodi urbani ad elevata densità e interconnessione.

È facile riconoscere in questi caratteri i tratti della città contemporanea, che ha reagito alla delocalizzazione industriale con la crescita del terziario, con l’economia della conoscenza, con i grandi centri commerciali, con la smart city e la gig economy, con i grandi eventi, con i distretti del lusso e del divertimento, con gli usi temporanei, con la sperimentazione di nuove funzioni urbane. 

Prossimità, lavoro, formazione

Tra le questioni aperte, probabilmente la più drammatica è come e quanto queste strategie con cui si è cercato di reagire alla scomparsa dell’industria possano crescere, radicarsi nel territorio e diffondersi, distribuendo risorse e opportunità anche al di fuori di aree già privilegiate. Occorre rivolgere l’attenzione a strategie capaci di innescare crescita economica e sociale anche in aree urbane marginali, desertificate e degradate. Si tratta cioè di individuare – nella evoluzione della tecnologia, nei processi di concentrazione e frammentazione della produzione, nell’accesso a finanziamenti – spazi e progetti concreti e approfonditi che riportino il lavoro in città; un lavoro rinnovato, che vada oltre la diffusione dello Smartworking, che sia compatibile con l’ambiente e con le vocazioni territoriali, con le problematiche giovanili, con le strategie collaborative, con i processi inclusivi, con la riattivazione della mobilità sociale. 

Al lavoro si accompagna inevitabilmente l’implementazione di processi di formazione ai diversi livelli, necessari alle competenze richieste dalle condizioni rinnovate della produzione, ma anche alla creazione di soggetti politici consapevoli, all’innalzamento del livello di cultura media, allo sviluppo della conoscenza e della capacità di innovazione. Ma le funzioni formative non si limitano ad attivare competenze; i processi di rigenerazione urbana nel mondo hanno ricorrentemente puntato su nuovi insediamenti per la formazione, la ricerca, il trasferimento tecnologico; la presenza universitaria costituisce – attraverso il mix sociale, il dinamismo, l’emulazione – uno straordinario dispositivo di incentivazione all’emancipazione sociale: la vivacità e la creatività del mondo universitario si fondono intimamente con la vita quotidiana e con il carattere della città intera, quando la presenza diffusa di energie culturali tende a propagarsi e coinvolgere anche la popolazione non studentesca. 

Prossimità come contrasto alla Pandemia

Come è stato detto da molti, la Pandemia – oltre a costringerci ad una brusca revisione delle certezze su cui si è sostenuta la società del Nord del mondo – ha evidenziato una serie di criticità pregresse che tuttavia non avevano fino a quel momento conquistato l’attenzione dei politici e dei media. Il Lockdown, lo Smartworking, la DAD, le anguste delimitazioni della nuova esperienza urbana ci hanno costretto a forza a sperimentare la dimensione della scala locale, delle distanze limitate, dei tempi rallentati e riflessivi, piuttosto che quella febbrile dei flussi a lunga distanza, dei grandi distretti del lavoro e del consumo, dei grandi Hub e delle arterie di comunicazione globale. La Pandemia ha agito come la moviola che – nel calcio o nel tennis – permette di verificare con una serie di frames estremamente rallentati e ravvicinati la reale traiettoria della palla in gioco; così, riappropriandoci della dimensione minuta del tempo e dello spazio, non abbiamo più potuto negare i profondi squilibri che caratterizzano il nostro abitare contemporaneo: i grandi ospedali affollati e super specializzati da una parte, l’inconsistenza dei presidi territoriali dall’altra, la crescita paradossale dei centri commerciali ed il progressivo spegnersi dei negozi al dettaglio, l’inadeguatezza degli spazi scolastici e i colli di bottiglia prodotti dalla rete dei trasporti, il ristoro dei grandi parchi inaccessibili ai più e la desolazione dei giardinetti di quartiere, la sicurezza e il controllo sociale nei luoghi centrali e la desertificazione, l’incuria, la marginalizzazione ostile delle periferie, gli ambienti ampi, luminosi, duttili, accoglienti delle dimore borghesi, gli spazi ristretti, rigidi, promiscui, opprimenti degli alloggi popolari, l’inesauribile potenzialità delle reti e le profonde disuguaglianze che si rivelano nelle capacità di accesso da parte dei diversi nuclei sociali…

La Pandemia ha amplificato e consolidato la divisione tra quanti hanno trovato modo di sopravvivere all’isolamento e al congelamento delle attività economiche e coloro che ne sono stati definitivamente travolti; in questo modo la Pandemia ci ha abituati all’isolamento dentro accoglienti “confort zones” ed ha rinforzato la nostra istintiva propensione all’individualismo, grazie alla rete come surrogato della comunità: «…uno degli effetti della pandemia, già piuttosto evidente, è lo spostamento del baricentro delle attività produttive e di consumo verso la dimensione digitale, con quote crescenti di lavoro, studio e intrattenimento online e con le conseguenti implicazioni in termini di mobilità, socialità e uso dei servizi urbani. Proprio in questo contesto, la città delle prossimità diventa un fenomeno di grande attualità in quanto linea guida da seguire per affrontare le sfide ambientali e sociali, ma anche per opporsi all’idea – potente, comoda e già largamente diffusa – del “tutto a/da casa”, cioè lo scenario in cui è possibile fare e ricevere quasi tutto nella propria abitazione, estremizzando l’individualizzazione delle persone e amplificando il carico ambientale, le disuguaglianze e l’emarginazione.» (https://www.pandorarivista.it/articoli/abitare-la-prossimita-idee-per-la-citta-dei-15-minuti-di-ezio-manzini/)

É appunto nel corso della Pandemia e con sullo sfondo la crisi climatica, che la questione delle “città dei 15 minuti” si è affermata come possibile risposta alle città paralizzate dal virus, al raggrumarsi dei flussi di mobilità, agli spazi vitali ridotti a nidi più o meno angusti, a rifugi o a luoghi per l’accoglienza temporanea, sospesi in uno spazio-tempo rivelatosi improvvisamente distopico. 

Il tema della individuazione di porzioni urbane di dimensioni contenute, in grado di soddisfare le esigenze di base di una città, è presente da decenni nella ricerca sulla ottimizzazione del consumo energetico, su criteri di mobilità sostenibile, su dimensioni, caratteri, funzioni compatibili con nuclei di vicinato socialmente collaborativi e integrati. Un programma orientato in questa direzione, nato dagli studi di Carlos Moreno, accademico, urbanista e divulgatore colombiano presso la Sorbona di Parigi, è stato al centro dell’attenzione quando venne inserito nel 2020 nella piattaforma elettorale della futura sindaca di Parigi Anne Hidalgo, mentre altre grandi città occidentali si muovevano in analoghe sperimentazioni, e nel frattempo se n’è cominciato a parlare sempre più spesso anche in Italia.

Alla definizione “città dei 15 minuti” si è in seguito preferita quella di “città della prossimità”, che esprime in termini qualitativi, piuttosto che quantitativi, una serie di strategie dirette a realizzare reti di servizi essenziali che permettano agli abitanti di assolvere alle loro esigenze del quotidiano senza dover oltrepassare il raggio di pedonalità o di ciclabilità limitata. Il termine “prossimità” è, ovviamente, una astrazione che prende forma reale quando, di volta in volta, si confronta con i caratteri morfologici del territorio, con le matrici fisiche e culturali della forma urbana, con le unità insediative minute, con i comportamenti sociali e con i livelli di permeabilità e di percorribilità che le forme insediative permettono. Per questo motivo il concetto di prossimità si rivela una approssimazione declinabile in forme diverse, a seconda dei caratteri specifici delle città in cui viene sperimentata. Barcellona, Sidney, Parigi, Milano hanno formulato risposte diverse al tema della prossimità.

Prove di prossimità

Possiamo tuttavia, in base ai diversi casi studio, provare ad annotare alcuni tratti stabili e riconoscibili di quello che potrebbe diventare un progetto di prossimità: le soglie dimensionali registrano oscillazioni molto ampie: per arrotondamento, tra i 15.000 e i 150.000 abitanti e anche molto oltre. «Nella città di Sidney – che si dice fiera di essere una 20-minutes city – è interessato l’intero centro urbano, circa 170.000 abitanti; a Parigi viene applicata ai Quartiers/Arrondissement (non sempre coincidenti) che vanno da circa 16.000 a 230.000 abitanti; a Portland si parla addirittura della maggior parte della città, cioè quasi 600.000 abitanti; a Barcellona la suddivisione per Superilles/Superblocks di nove isolati porta a stimare circa 20.000 abitanti» da genteeterritorio.it 

Per risalire alle premesse del ragionamento e confrontarlo con i dati torinesi, possiamo partire, per una prima ipotesi approssimativa, dalla dimensione teorica di un insediamento entro cui ogni punto sia raggiungibile a piedi, dal centro, entro i 15 minuti: ossia dalla superficie di un cerchio di raggio 600÷800 ml (distanza media percorsa a piedi in 15 min ) = 1.200.000 ÷ 2.000.000 mq; Torino ha una superficie di 130,2 kmq che, divisa per 2000 mq, genererebbe circa 68 aree teoriche con relativi hub di servizi di prossimità. Otteniamo la stessa indicazione a partire dal numero di abitanti: applicando un indice di insediamento teorico intorno ai 6.500 abitanti/kmq, corrispondente ai dati torinesi, ne deriva una popolazione di 7.800÷13.000 abitanti contenuti in un area di prossimità (per un confronto, il quartiere San Salvario ha 38.000 abitanti ed una superficie di 2.460.000 mq); la popolazione attuale di Torino è di circa 890,000 abitanti, che divisi per 13.000 ci conferma lo stesso risultato: circa 68 aree di prossimità. Dal momento che il numero ottenuto ci propone uno scenario poco realistico (le circoscrizioni sono 8, prima del 2016 erano 10) si tratta di assumere questi dati come valore di riferimento e valutare quale approssimazione può ritenersi accettabile, in relazione alle strategie generali, ai servizi già presenti sul territorio, alle priorità e alle risorse che possono essere impegnate per il programma. I parametri dimensionali andranno disarticolati e plasmati sui caratteri fisici e funzionali dei pieni e dei vuoti, sulle caratteristiche orografiche, sulle maggiori o minori densità, sui caratteri storici e morfologici, sui livelli di socialità e sulle vocazioni delle diverse aree che compongono la maglia urbana; collina, parchi fluviali, vuoti industriali, area centrale, borghi, tipi insediativi richiedono approcci specifici. 

Dalla scelta delle dimensioni e delle funzioni da inserire nei nodi di prossimità dipende l’orizzonte entro cui collocare il programma. I servizi essenziali (scuola, salute, approvvigionamento, socialità, biblioteche, sport, tempo libero…) presenti capillarmente nel tessuto urbano possono costituire presìdi istituzionali diffusi, ampliando le loro funzioni originarie per assumere quella di nodo di rete, luogo di riferimento e di integrazione per gli abitanti, polo di coagulazione di funzioni di prossimità. Accanto a queste, il mercato, il supermercato local, il negozio sotto casa, l’edicola, il chiosco, la tabaccheria, rivestono un particolare valore strategico, che oltrepassa l’aspetto puramente economico per diventare punto di aggregazione di funzioni inedite, come portinerie di quartiere, servizi alle persone, custodie e piccole manutenzioni, buone pratiche di vicinato, orientamento ai servizi territoriali, biblioteca circolante, emeroteca, gruppi di acquisto, comunità energetiche e altre iniziative con approccio solidale e collaborativo…

Cambiano le modalità di fruizione degli spazi pubblici 

Strade e piazze perdono in parte la loro funzione di convogliare e ordinare i flussi di attraversamento, per privilegiare la mobilità locale, allargare i marciapiedi e ampliare la disponibilità di spazi pubblici, dove ci si muove lentamente e dove si svolge la rappresentazione delle pratiche collettive; oltre all’incremento delle aree e dei percorsi ciclo-pedonali, gli spazi pubblici già ora assorbono una quota di attività legate alla ristorazione, alla cultura, all’incontro; la riduzione dei veicoli in circolazione comporta un uso diverso dei parcheggi; i campi sportivi, le aree per cani, i parchi, i giardini, le aree piantumate devono rispondere ad una domanda diffusa, che intercetti tanto l’obiettivo di migliorare la qualità ambientale del tessuto urbano minuto (isole di calore, fotosintesi, permeabilità del suolo, rallentamento delle acque meteoriche…) quanto quello di avvicinare il verde ai luoghi dell’abitare e trovare spazi appropriati per quote di agricoltura urbana.                         

Sanità territoriale

Un aspetto cruciale nel percorso verso la prossimità è costituito dall’organizzazione territoriale della sanità, ossia dell’istituzione che più direttamente è stata coinvolta nella crisi pandemica, che ne ha messo in discussione il paradigma “concentrazione/acuzie vs. diffusione/prevenzione”. Dalla descrizione delle Case di Comunità, previste dal PNRR come luogo dove il cittadino potrà trovare una risposta integrata e capillare a diversi bisogni sanitari e sociosanitari, emergono ricadute sulla forma urbana e sulla valenza architettonica  «… tali strutture, variamente denominate, dimensionate e distribuite sul territorio fungono, localmente, da raccordo tra i diversi servizi, promuovendo, ove possibile, la loro concentrazione in edifici visibili e riconoscibili dalla popolazione. Il nuovo paradigma dovrà volgere verso una sanità di iniziativa con il coinvolgimento sempre maggiore dei cittadini per la promozione della loro salute». da quotidianosanità.it

Attraverso il rapporto tra Centri Diagnostici e Assistenza Domiciliare, con l’integrazione tra Sanità pubblica e Assistenza Sociale, lo sviluppo di reti di telemedicina, la presenza di Centri Unificati di Prenotazione, con la disponibilità di ambulatori di Medici di Medicina Generale, nella istituzione delle Case della Salute si legge l’esigenza di costituire una cerniera polivalente tra centri specializzati e tessuti diffusi, per disegnare una nuova geografia della presenza delle istituzioni sanitarie nelle città e nei territori. Peraltro il PNRR, stabilendo una soglia dimensionale (Una Casa di Comunità ogni circa 50.000 abitanti) introduce un parametro di riferimento utile per l’intera rete di prossimità.

Ma le intenzioni di costruire una nuova geografia si scontrano con concrezioni di poteri, apparati e interessi tenacemente sedimentati. Indicative sono le forti contraddizioni connesse alle scelte localizzative e realizzative delle Case di Comunità.

Malgrado l’allarme sollevato dall’ANCI, la questione della localizzazione dei presidi sanitari di secondo livello sconta un irrisolto contrasto formale di competenze tra Regioni e Comuni, dietro cui si cela spesso un contrasto sostanziale tra modelli sanitari con opposta logica organizzativa e opposto significato politico.

Parole ombrello

Bertram Niessen, ricercatore nel campo dei processi culturali, ha coniato il termine “parole ombrello” (Pandora, Gennaio 2021) per mette in guardia dall’eccessiva e rassicurante popolarità di termini sdoganati, pacificati e ripetuti fino alla consunzione, come “innovazione”, “smart”, “resilienza” o “comunità”, usati in ogni circostanza per offrire riparo e consenso ai più diversi discorsi. Parole il cui significato viene dilatato e sfilacciato sino a perdere l’originale contenuto di critica e innovazione, per caricarsi di ambiguità. 

Il concetto di Prossimità è stato in questi ultimi tempi più volte evocato per annunciare svolte sostanziali nel governo delle città, ma di questo annuncio personalmente non sono stato finora in grado di individuare esiti concreti. Per evitare che anche la “Prossimità” subisca la deriva di altre “parole ombrello” – o che venga interpretata come ricetta salvifica, in grado di rispondere a ogni problema – mi pare importante elaborare proposte capaci di dare concretezza ad un nuovo modello urbano, in relazione ad almeno quattro aspetti:

  • Accessibilità per tutti ai servizi di base, diffusi capillarmente nel territorio, attraverso l’individuazione di funzioni essenziali, collocate in luoghi vicini ai cittadini; luoghi che devono avere anche carattere di dignità e rappresentatività urbana, tale da diventare riferimento per le comunità locali;
  • Al di là dell’accessibilità ai servizi, occorre estendere il concetto di prossimità agli aspetti relazionali, per promuovere la costruzione di comunità attraverso la condivisione di interessi e progetti comuni; 
  • Negli scorsi anni il numero, il ruolo, la capacità operativa delle Circoscrizioni si sono significativamente ridotte, per ragioni economiche ma anche di visione politica. L’attenzione alle logiche di prossimità rappresenta un segnale di inversione di tendenza rispetto alla contrazione delle politiche di decentramento che è stata attuata negli ultimi anni;
  • la città di prossimità nasce non solo da un paradigma politico “Bottom-Up” contrapposto al “Top-Down” esercitato dal “Potere Centrale”, ma dalla necessità di introdurre una logica sistemica che caratterizzi nella maggior misura possibile le azioni di trasformazione; insieme alla facile accessibilità ai servizi di base, i benefici che deriverebbero dalla prossimità sono la riduzione del traffico, il minore inquinamento, la maggiore vivibilità degli spazi pubblici, la riappropriazione del tempo di vita di ciascuno, grazie alla riduzione delle ore sprecate in lunghi spostamenti.

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