Fiducia: “dal latino “fidere”, è l’atteggiamento verso altri o verso sé stessi che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità” (cfr. Treccani).
Aver fiducia implica affidarsi ad altri, avendo la ragionevole certezza che essi non tradiranno le nostre aspettative. E’ un atteggiamento che si genera, matura e consolida, usualmente, sulla base dell’esperienza oppure, in alcuni casi, sulla base di conoscenze trasmesse a noi da altre persone.

A ben vedere, la fiducia è alla base dei rapporti tra le persone, il common ground del nostro modello relazionale: quando andiamo a pranzo in un ristorante, abbiamo fiducia che ci serviranno piatti buoni e sani e il ristoratore ha fiducia che dopo noi salderemo il conto. Se andiamo in banca a depositare i nostri soldi abbiamo fiducia che l’istituto di credito ben li custodirà e lo stesso farà la banca quando chiederemo un prestito o un mutuo. O almeno così era una volta, prima che le regole sulla trasparenza e la sostenibilità bancaria, come altre, trasformassero questi rapporti in elementi spesso di conflitto che, paradossalmente, hanno reso i rapporti più difficili e le malversazioni più frequenti, come la cronaca purtroppo ci racconta.
Quindi la fiducia sembra lentamente scomparire nei rapporti tra le persone costretta da mille regole nate per renderla “garantita”. Le regole la stanno eliminando anche per colpa di chi le usa – le regole – per tradire o per trarne vantaggio. Esempi se ne possono fare a centinaia: se pensiamo al mondo medico, una volta tra paziente e medico la “fiducia” era l’essenza stessa del rapporto ed essa faceva accettare anche esiti infausti senza contenziosi, cosa che consentiva al medico di tentarle tutte per guarire il paziente. Oggi no. Il cosiddetto “obbligo di risultato” fa si che sia nata la medicina difensiva, dove la difesa non è rivolta verso il paziente ma verso il medico che sempre più è portato alla rigida applicazione di “protocolli” stereotipati per mettersi al riparo da eventuali insuccessi e conseguenti richieste di risarcimento. E ciò vale per quasi tutte le libere professioni, nelle due direzioni.
Ci stiamo trasformando in “macchine” alle quali chiedere prestazioni e risultati di tipo “industriale”, quasi come un processo a controllo numerico, in cui la valutazione personale e l’inevitabile tasso di errore – dovuto anche alla ricerca e sperimentazione che è tipica delle attività intellettuali – deve essere zero. Trovo emblematico il caso degli appalti pubblici dove, a causa dell’alto tasso di corruttela riscontrato negli anni, si è prodotta una legislazione volta ad eliminare ogni discrezionalità e assunzione di responsabilità, senza tuttavia risolvere il problema. Questo ha comportato la possibilità di adottare soluzioni e procedure assurde sul piano del merito, ma perfettamente (almeno all’apparenza) “legali”, delle cui conseguenze nessuno ha responsabilità. Che poi, a ben vedere, nel confuso susseguirsi di norme astruse e altrettanto complicate interpretazioni /sostituzioni giurisprudenziali, si trova spesso una scappatoia, anche davanti all’evidenza.

Questo significa, anche, il rifiuto della responsabilità della scelta e comporta la sensibile riduzione della comunicazione empatica tra le persone.
Viviamo, quindi, un’epoca con il tasso di fiducia molto ridotto. Non abbiamo più fiducia anche verso coloro sui quali prima l’avevamo riposta. Cerchiamo il “nuovo”, il “conveniente”, anche a dispetto di alcune evidenze delle quali facciamo fatica a comprendere portata e senso; come stupirsi quindi della rivoluzione (pacifica per carità) a cui abbiamo assistito nella recentissima tornata elettorale…
Forse abbiamo bisogno di ridar valore alla “fiducia”, al rapporto tra le persone e tra esse e le istituzioni e, per far questo, dobbiamo, credo, ridar valore al mantenimento della parola data e alla serietà oltre che alla responsabilità dei comportamenti.

Lo so. E’ una pia illusione.