La demolizione dell’ex Centro Congressi della Regione Piemonte di corso Stati Uniti (Amedeo Albertini, 1971) a Torino è l’ultimo capitolo di una triste saga che vede il patrimonio dell’architettura contemporanea della città trascurato o addirittura cancellato, in una sorta di damnatio memoriae di cui non si capisce neppure la ragione.

Come sappiamo Torino, a partire dai primi anni del Novecento, diventa la città industriale per eccellenza. L’innovazione produttiva e tecnologica si riflette nell’architettura che trova qui un laboratorio straordinario. Si pensi alla realizzazione dello stabilimento Fiat del Lingotto di Giacomo Mattè Trucco (1915-1923), poi alla mostra di architettura moderna del Valentino del 1928 (con opere dei futuristi torinesi, tra cui Alberto Sartoris), ai capolavori voluti dall’industriale Riccardo Gualino, agli interventi degli anni Trenta, esemplari di una ricerca originale tra monumentalità di regime e influenze del razionalismo internazionale, oppure ancora alle opere del secondo Novecento, tra cui i complessi di Italia ’61 e Torino Esposizioni sono soltanto i più noti.  

Ebbene, molte di queste importanti testimonianze sono state sacrificate all’altare della speculazione o semplicemente dell’ignoranza e della sciatteria: l’elenco è impressionante. 

Ricordo la demolizione della Casa del Marinaretto, straordinaria architettura in forma di nave sulle sponde del Po, di Costantino Costantini e l’infelice trasformazione della sua Casa rionale del Balilla di via Guastalla (1934), il lungo abbandono del palazzo Gualino (Giuseppe Pagano e Gino Levi-Montalcini, 1929), prima architettura razionalista in Italia, del quale è andata dispersa buona parte degli arredi, capolavori del razionale studio di interni applicato all’ufficio, ed è stata autorizzata un’incongrua destinazione d’uso a residenza. 

Nel 1945 si forma a Torino il “Gruppo architetti moderni”, non casualmente intitolato a Giuseppe Pagano (1896-1945) il cui impegno per un’architettura lontana della monumentalità e motivata da responsabilità sociale, continuato nella lotta partigiana e culminato nella tragica fine a Mauthausen, è visto come un esempio di coerenza civile e professionale. Gino Levi-Montalcini (1902-1974) svolge un ruolo importante come riferimento del gruppo, ma questo non lo mette al riparo dalla perdita di numerose sue architetture come le ville Ballarini e Marocco, entrambe a Sauze d’Oulx (1947-1950), frutto di una attenta lettura del paesaggio e di una commistione tra culture locali e innovazione tecnologica, insieme con numerosi allestimenti e edifici di servizio per l’industria. Le opere di un altro protagonista del Novecento torinese, Mario Passanti (1901-1975), sono state oggetto di una sfortuna critica che avrebbe potuto essere destinata a miglior causa: si pensi alla fabbrica di Moncalieri (1951-1952), un parallelepipedo perfetto per armonia dell’impaginato prospettico e delle proporzioni, abbandonato da tempo e periodicamente oggetto di progetti di recupero indifferenti ai suoi caratteri originali di qualità. Oppure al palazzo degli Uffici Tecnici del Comune (1956-1961), innocente capro espiatorio (“il palazzaccio”) della condivisibile reazione agli interventi postbellici nel centro storico, di cui si chiede periodicamente la demolizione, ma che fortunatamente per ora resta al suo posto.     

Anche alcune opere di un protagonista come Carlo Mollino, noto per la sua poliedrica attività rivolta al design, alla fotografia, allo sport, all’università, all’aeronautica, non hanno avuto troppa fortuna. Nel 1960 viene demolita la sua Società ippica (1937-1940) che aveva fatto parlare Pagano di “liricizzazione del razionalismo”, ma sorte analoga ha rischiato la sua slittovia al Lago Nero (Sauze d’Oulx, 1946-1947), sintesi tra architettura montana tradizionale e nuove ricerche strutturali, soltanto recentemente restaurata. Della Camera di commercio (1964-1973) opera significativa per ricerca strutturale e interpretazione del contesto, sono persi gli arredi originali dell’architetto, mentre addirittura il suo capolavoro, la ricostruzione del Teatro Regio (1965-1973), ha subito la pesante modifica del proscenio, con perdita dell’unità stilistica della grande sala a ferro di cavallo, concepita come uno spazio avvolgente, culminante appunto nell’apertura del palcoscenico.        

Appartenenti ad una generazione successiva, Roberto Gabetti (1925-2000) e Aimaro Oreglia d’Isola (1928) infrangono una serie di dogmi del razionalismo e proiettano la città di Torino in un dibattito internazionale sulla possibilità di interpretare la modernità in modo non dogmatico, in un rapporto, fino ad allora negato, con la storia e con i luoghi. Tuttavia la loro Borsa Valori (1957), geniale per interpretazione di forme e materiali del passato e per l’accorto inserimento nel contesto, risulta abbandonata ed attende da tempo (ormai dispersi i preziosi arredi e perduti i decori degli interni), una riqualificazione.  

Sodale di molte opere di Gabetti e Isola, è Giorgio Raineri (1927-2012) che vede il suo Noviziato delle suore della carità di S. Giovanna d’Antida (1962-1966) sulla collina di Torino oggetto di un recente riuso totalmente indifferente alla distribuzione degli spazi interni e alla tutela dell’impianto di facciata e dei suoi materiali, esiti di una ricerca funzionale ed estetica di grande raffinatezza, da ascrivere alle migliori opere del periodo.

Enzo Venturelli (1910-1996) autore di una personalissima ricerca, affinata nelle esperienze razionaliste del Teatro Principe (1945, demolito nel 1994) e sviluppata con l’avveniristica casa-studio Mastroianni (1954), tra espressionismo, futurismo e visioni ipertecnologiche, sempre connotate da una forte componente di umanità. Nonostante l’interesse per la sua opera abbia numerosi riscontri all’estero, tra cui una mostra a Parigi e una proposta di cattedra a Detroit, il suo Acquario-rettilario al giardino zoologico di parco Michelotti (1957-1960), che ricorda con forme vagamente espressioniste una enorme balena spiaggiata sulle sponde del Po, è in abbandono dal momento della chiusura dello zoo (1987) e attende una sempre più urgente opera di restauro e riqualificazione.   

Si potrebbero citare altre “disattenzioni” per la conservazione di opere di autori come Francesco Dolza o Sergio Hutter, ma appare ancora più emblematica la vicenda del complesso di Italia ’61, costruito per le celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia, come simbolo di uno sviluppo economico e industriale di cui Torino voleva essere emblema. Il Palazzo delle Mostre o Palavela (Annibale e Giorgio Rigotti, strutture di Nicola Esquillan e Franco Levi), esito di una stagione di ricerche strutturali che aveva uguali solo in Francia per arditezza concettuale e sperimentale, con le Olimpiadi invernali del 2006 è destinato a palazzetto del ghiaccio con il progetto di Gae Aulenti che annulla la percezione della straordinaria volta e ne distrugge le vetrate originali. I padiglioni delle Regioni (progetto e coordinamento di Giovanni Astengo) accolgono le attività di ricerca e di formazione dell’International Labour Organization e in occasione dei Giochi olimpici sono in parte ristrutturati, ma da allora versano in uno stato di preoccupante carenza di manutenzione ordinaria e strutturale. Il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi (1891-1979), capolavoro dell’ingegneria e dell’industrializzazione del cantiere, alla chiusura delle celebrazioni, vive un lungo periodo di difficile utilizzo e poi di abbandono, che ne accelera il degrado. L’attuale progetto di riuso ne prevede una incongrua destinazione a commercio, a meno che nuove visioni e nuovi finanziamenti riescano finalmente a destinarlo ad attività culturali di interesse pubblico.

Il complesso di Torino Esposizioni (interventi di Sottsass, Morandi e Nervi) è stato utilizzato malamente durante le Olimpiadi invernali e ancora oggi in gran parte abbandonato, nonostante diverse proposte di riuso che non hanno ancora avuto concretizzazione. Sorte analoga per le arcate dell’ex Mercato Ortofrutticolo Ingrosso (MOI) gioiello dell’architettura razionalista (Umberto Cuzzi, 1932), correttamente restaurato in occasione delle Olimpiadi, ma poi nuovamente lasciato al degrado. 

La distruzione del palazzo di Albertini, esempio di una rara e raffinata ricerca strutturale che ha visto il contributo di ingegneri come Cesare Castiglia (con G. Pizzetti, L. Masella, M. A. Chiorino, G. Losana), è dunque l’ultimo atto di un approccio barbaro alla cultura e all’identità di un luogo. 

Non deve essere il requiem per l’architettura moderna torinese, che costituisce un patrimonio di tutti, la testimonianza concreta di una stagione ricca di fermenti culturali, di sperimentazioni e di testimonianze materiali. Un patrimonio che non può essere sacrificato in nome di una pianificazione incompetente o subordinata all’interesse privato. 

È nostro compito costruire consapevolezza tra i cittadini, coinvolgere le università, le associazioni professionali, i mezzi di informazione, le amministrazioni locali e centrali sull’importanza e allo stesso tempo sulla fragilità, di un patrimonio a rischio che non deve sparire.