Intervenire su un’opera di architettura di valore storico-culturale significa, tra le altre cose, coniugare le esigenze di conservazione dell’autenticità del patrimonio storico con la compatibilità ambientale ed energetica; dove il termine autenticità non può limitarsi alla percezione dell’involucro esterno, ma deve tener conto degli aspetti più significativi del contesto in cui è nato: gli attori, il clima culturale, l’ideazione progettuale, il contesto territoriale, le tecniche costruttive, le risorse….. senza trascurare il fatto che anche il divenire dell’opera, con le sue stratificazioni e sedimentazioni, assume valore di documento e testimonianza.

Come scrisse Cesare Brandi «Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione nel futuro» (Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977)

È evidente che, ove poi si ponga il requisito di una ri-funzionalizzazione, e dunque l’adeguamento alle normative attuali e in particolare all’esigenza di garantire la sostenibilità ambientale, economica e sociale, si impongono al progettista una serie di scelte – non solo tecniche – che smantellano l’efficacia (se mai si sia davvero verificata tale) della ricostruzione del manufatto secondo il concetto, vagamente dottrinario, del “com’era e dov’era”.

Come ci sforziamo di affermare nei corsi formativi da noi organizzati, la “sostenibilitànon consiste nel semplice adeguamento a parametri e protocolli prestabiliti; corrisponde piuttosto ad una “strategia”, alla ricerca di un punto di equilibrio all’interno di un bilancio in cui compaiono quante più esigenze e unità di valore possibili, anche tra loro eterogenee, il cui contenuto può variare, tanto in ragione degli specifici casi a cui si applica, quanto in ragione del modificarsi, nel tempo, delle conoscenze, delle sensibilità, degli obiettivi, degli attori e delle risorse che intervengono nel definirne i contorni.

Un’ulteriore conferma – in un dibattito che precede lungamente la comparsa della questione “sostenibilità” – dell’impossibilità di stabilire un confine netto tra progetto (indeterminato, che ammette infinite soluzioni) e restauro (determinato da obiettivi e orientato da modelli e metodologie consolidate): in un processo qualitativo e critico che si muove all’interno di un vasto ambito di opzioni, rientrano in campo necessariamente sensibilità, valori simbolici, linguaggi, scelte programmatiche di obiettivi, di priorità, di tecniche, di compatibilità con il presente, che frantumano i confini della semplice “conservazione di immagine e materia” e riportano in primo piano le prerogative del progetto, come prefigurazione di una tra le molte “letture” possibili, a fronte dei requisiti posti dal tema.

Interrogandosi sul ruolo che l’architettura assume su di sé nella città intesa come comunità sociale, sono almeno due le riflessioni che si impongono:

  • il principale compito del restauro è rivolto non solo al suo committente diretto ed esplicito, ma al suo committente indiretto e – implicitamente – principale fruitore, la “comunità sociale”, con cui occorre ricostruire e garantire nel tempo una istanza particolare; vale a dire la riconoscibilità dell’opera in quanto singolare prodotto di arte e di ingegno, cui spetta un ruolo particolare nella città. Non è un caso che in questi anni sia nata e successivamente si sia consolidata e articolata la affermazione dell’esistenza di “beni comuni”, che suggerisce l’esistenza di una condizione particolare, che non rientra nel tradizionale dualismo pubblico/privato e verso cui occorre rivolgere attenzione e sensibilità particolari. Condizione assunta inizialmente da una serie di risorse necessarie alla sopravvivenza collettiva, e che arriva oggi a comprendere alcuni nodi specifici che giocano – tanto per la funzione e il ruolo che hanno assunto, quanto per la percezione condivisa che se ne ha, in quanto fruitori generici dello spazio urbano – un ruolo particolarmente riconoscibile, una forte connotazione simbolica, una funzione particolarmente richiesta e condivisa e scarsamente disponibile nella città convenzionale.
  • In questa cornice, lo stesso intervento di restauro deve assumere responsabilmente un proprio ruolo, un ulteriore tassello nel divenire dell’opera con cui accetta di interferire e su cui esprime in sostanza un giudizio; deve, cioè, rendersi riconoscibile, sia pure nel modo più sommesso, se tale è la scelta. In sintesi, ci si domanda se l’intervento debba davvero rendersi il più possibile invisibile, tanto più con il mutare significativo delle condizioni di fruizione, del quadro normativo, del contesto storico e culturale, o se non sia legittimo lasciare un segno che segnali, pur con la dovuta attenzione e sottraendosi ad ogni ambizione di protagonismo, il compimento dell’ultimo, in ordine di tempo, tassello del divenire dell’opera architettonica.

David Chiepperfield – restauro del  Neues Museum a Berlino  –  foto di  J.P. Dalbera tratta da Flickr