A quanto pare, secondo la maggior parte degli osservatori, l’incontro straordinario sul cambiamento climatico, organizzato dall’ONU, non ha portato a grandi risultati né a impegni concreti da parte dei paesi più industrializzati per ridurre le emissioni inquinanti, come se i partecipanti agli incontri istituzionali non sentissero il senso di urgenza che ha animato e sta animando le manifestazioni organizzate in concomitanza.

Eppure, tutte le ricerche scientifiche più recenti dicono che la temperatura media della Terra sta aumentando a una velocità preoccupante, con ripercussioni sempre più evidenti: eventi meteorologici più intensi ed estremi, tempeste e uragani, ondate di calore anomale, scioglimenti dei ghiacci ai poli e sulle catene montuose, innalzamento dei mari.

Si prevede ora che entro la fine del secolo la temperatura media globale sarà di 3° C superiore rispetto al secolo scorso, a causa delle attività umane che, secondo la comunità scientifica, hanno contribuito sensibilmente al riscaldamento globale.

Un quadro scoraggiante, nonostante due giorni prima del vertice fosse stato pubblicato un nuovo autorevole e drammatico rapporto, che non lascia dubbi sulla crisi climatica in atto.

L’innalzamento del livello del mare sta accelerando: senza un drastico taglio delle emissioni climalteranti, gli oceani entro il 2100 si alzeranno oltre dieci volte più velocemente di quanto sia avvenuto nel XX secolo. Significa che il mare potrebbe sollevarsi di più di 80 centimetri entro fine secolo (secondo le stime più catastrofiche, addirittura 1,1 metri). Tra l’84% e il 90% di tutte le ondate marine di calore è oggi attribuibile alla crisi climatica: e sono due volte più frequenti, più calde e di maggior durata rispetto al periodo pre-anni ottanta. Il riscaldamento dell’oceano riduce la miscelazione tra gli strati d’acqua e, di conseguenza, l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive per la vita marina.

Intanto, dal 29 luglio si è esaurito il patrimonio annuale di risorse che la Terra può rigenerare: da qui a fine 2019 vivremo a debito, consumando capitale naturale destinato a generazioni future. All’Overshoot Day si arriva puntualmente ogni anno perché la nostra domanda di risorse in un anno supera quanto la Terra è in grado di rigenerare per quello stesso periodo di tempo. Nei prossimi mesi, le nostre esigenze saranno coperte attingendo alle riserve non rinnovabili (suolo, foreste, legname, allevamenti, pesce), accumulando emissioni dannose in atmosfera.

Alla fine del 1980 venne scoperto nell’oceano Pacifico un enorme accumulo di plastica, il Great Pacific Garbage Patch, dalle dimensioni stimate comprese tra i 700 mila e i 10 milioni di chilometri quadrati, l’equivalente della penisola iberica o degli Usa (dal minimo al massimo della stima). Si è formata negli anni per effetto delle correnti oceaniche che hanno convogliato, al centro dei vortici, i rifiuti provenienti dai fiumi. Di queste isole, attualmente, se ne contano altre quattro, cinque se si considera quella in formazione nel mare di Barents, alle porte dell’Artico: un’altra minaccia per i ghiacciai.

Anche l’inquinamento degli oceani è una questione cruciale per la salute. Infatti, la plastica che galleggia in superficie, nel tempo, si foto-degrada scomponendosi in micro-particelle, fino a mischiarsi con lo zooplancton, alla base della catena alimentare delle creature marine, di cui ci nutriamo.

Ciononostante, c’è chi nega ogni emergenza. Si prestano a farlo gli stessi scienziati coinvolti dall’industria del tabacco per screditare le evidenze scientifiche sul cancro da fumo.

Gli iniziatori della corrente negazionista sui cambiamenti climatici – finanziati dalle aziende petrolifere e rivelati in “Merchants of Doubts”, il libro di Oreskes e Conway che ha descritto il complotto – sono stati due fisici americani, Frederick Seitz e Fred Singer. Seitz, morto nel 2008, è tra coloro che hanno contribuito alla costruzione della bomba atomica. E anche Singer, 94enne, nella sua carriera ha ricoperto ruoli di primo piano nello sviluppo dei satelliti per l’osservazione terrestre con l’amministrazione Reagan.

A loro, si aggiunge Robert Jastrow, astrofisico scomparso nel 2008, che partecipò ai programmi spaziali e che con Seitz e Singer formò quella che venne definita “the denial machine”, la macchina dei negazionisti. Con un gruppo di pseudo esperti, cooperarono con think tank e corporation private, per diffondere lo “scetticismo ambientale”.

Oltre il 90% dei loro libri pubblicati negli anni novanta era collegato a fondazioni di destra e affini. La strategia principale per diffondere il dubbio consisteva nel far apparire i propri proclami come affermazioni autorevoli. È stata dimostrata infatti la creazione di periodici e riviste scientifiche − anche apparentemente peer review (con revisione alla pari) − nelle quali i risultati delle ricerche sponsorizzate dall’industria petrolifera potessero essere considerati lavori indipendenti.

I negazionisti insistono, anche da noi: sedicenti scienziati sostenuti dalla destra, che hanno co-firmato una lettera all’Onu. Fanno parte dei 500, tra cattedratici e ricercatori mondiali di dubbia fama, con cui contestano i dati e il “catastrofismo” di Greta Thurnberg. E lamentano, a dire di chi li appoggia, il linciaggio sociale e un clima da caccia alle streghe contro di loro, perché non vengono ascoltati. Grottesco quanto scrive a loro difesa Renato Farina su “Libero” del 25 settembre 2019: «Siccome milioni di ignoranti affermano in corteo, bloccando i parlamenti, che la terra è piatta e l’araba fenice esiste (più o meno siamo a questo punto) allora, essendo molti più dei 500 scienziati, hanno ragione loro».

Ad accrescere la polemica, con una posizione inopinata e peraltro ragionevole e stimolante, è stato di recente non uno scienziato, ma un affermato scrittore americano, Jonathan Franzen.

Franzen è l’autore americano più celebrato della sua generazione: appartato in California, scrive romanzi di successo (cinque tradotti in italiano da Einaudi) – ma è anche un ottimo saggista – odia i social network, è un ambientalista appassionato di uccelli, solitamente irascibile e per niente incline ad evitare polemiche. Ora è riuscito ad attaccare – da sinistra – gli ecologisti, che chiama “i professionisti del climate change”, sostenendo che « fondamentalmente non gliene frega più niente alla sinistra di combattere il cambiamento climatico, se non per dare addosso a Trump».

Il suo intervento è stato pubblicato l’8 settembre 2019 sul New Yorker, rivista newyorkese che tratta di politica, questioni internazionali, scienza, tecnologia, economia e società, tra cronaca, approfondimenti e reportage, e si distingue per la qualità della scrittura, grazie al contributo dei migliori giornalisti. È una testata che ha preferito – secondo una formula che ne ha fatto il successo – prendere sul serio la cultura ‘low’ e scrivere in modo popolare di temi di ‘alta cultura’.

Questa è la tesi di Franzen: «Se hai meno di sessant’anni, hai buone probabilità di assistere alla destabilizzazione radicale della vita sulla Terra: gravi carenze dei raccolti, incendi apocalittici, economie che implodono, inondazioni epiche, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se hai meno di trent’anni, hai la garanzia che ne sarai testimone».

In sostanza, chiede di perdere ogni speranza di fermare i cambiamenti climatici. Al punto in cui siamo, tutti i paesi del mondo dovrebbero cambiare subito drasticamente il proprio stile di vita e le proprie attività: è mai possibile? Ma se il problema è irrisolvibile, non bisogna scoraggiare le persone ad impegnarsi ugualmente. «Gli attivisti che lo dicono mi ricordano i capi religiosi che temono che, senza la promessa di salvezza eterna, la gente non si preoccuperà di comportarsi bene. Nella mia esperienza, i non credenti non amano meno il loro prossimo dei credenti. E così mi chiedo cosa potrebbe accadere se, invece di negare la realtà, ci dicessimo la verità».

La catastrofe ambientale è ormai inevitabile e sapere che, presto o tardi, ci attende la fine del mondo potrebbe indurci a trattare gli altri in modo diverso, ad anticipare quella forma di solidarietà che sarà necessaria per sopravvivere in un futuro già troppo vicino. Un «pessimismo costruttivo» quello di Franzen, che esprime grande (e forse eccessiva) fiducia nella natura umana, più che nella scienza o nella politica.

Il suo lungo intervento sul New Yorker non poteva però non scatenare un’ondata di polemiche sui social. Particolarmente inviperiti gli scienziati ambientalisti, secondo cui «i modelli previsionali cui fa riferimento Franzen non hanno niente di scientifico». Oppure, «il fatto che per chiunque scriva e capisca di cambiamenti climatici sia difficile mandar giù l’intervento di Franzen è un’indicazione che non dovreste pubblicare un articolo solo perché scritto da lui». E ancora «lo studio del clima è complicato, ma se devi scriverne sul New Yorker è meglio farlo con cognizione».

In effetti, alla sconfessione delle loro teorie positive si sostituisce solo una speranza: è possibile credere, in una società sempre più disumanizzata, che la consapevolezza della fine del mondo prossima spinga la gente ad abbracciare “una sorta di neoumanesimo francescano”? Secondo Franzen sì, a patto che non si dipinga uno scenario sfrenatamente ottimistico, quando presto, prestissimo, tra qualche anno, questo apparirà invece irrealizzabile.

Possiamo accettare questo invito a concentrarci sul presente, rifiutando il becero negazionismo di chi vuole lo “statu quo” dell’inquinamento a fini puramente di arricchimento e il messaggio tranquillizzante di chi ritiene che la scienza giungerà in tempo a fermare la catastrofe?

Il messaggio di Franzen è questo. Quando il futuro appare compromesso, contro il ritorno delle barbarie, la disponibilità verso il prossimo e il rispetto di quanto ci circonda sono ancora più determinanti.  Un messaggio che si può condividere o meno ed io, personalmente, lo condivido. Anche perché mi ricorda una affermazione indimenticabile di Antonio Gramsci: “Il pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà”.

Nella foto un’opera di Andy Goldsworthy da Flickr.com