Una prima ragione per il NO.
Che i territori abbiano tratto beneficio dalla rete di trasporti che li attraversa, è nozione riconosciuta e condivisa, una di quelle nozioni che appartengono ad una sorta di piattaforma convenzionale di saperi e valori – più o meno consapevolmente – condivisi, su cui si basano i legami che legano i consorzi umani: pressapoco tutte le civiltà che sono riportate nei nostri libri di storia e quella occidentale in particolare. Abbiamo tutti imparato che le città prima, i commerci e poi le industrie si sono insediati prevalentemente lungo i tracciati dei sistemi di comunicazione: fin dal neolitico, da quando la nascita dell’agricoltura ha permesso di produrre riserve alimentari da conservare e distribuire, le vie d’acqua hanno costituito un primo elemento di strutturazione del territorio, a cui sono seguiti strade, ferrovie ecc. Per rimuovere gli ostacoli esistenti in natura, si sono deviati i regimi e i percorsi dei fiumi, si sono modificati dislivelli e forato montagne, si sono estratte materie prime, si sono disboscati territori, si sono modificati i sistemi di coltivazione, si sono riversati gli scarti in atmosfere, terre e acque, nella convinzione prometeica che “più grande, più alto, più potente, più veloce”, costituissero gli unici paradigmi possibili per garantire lo sviluppo umano.
Questo, insieme a molti altri fenomeni, ha contribuito ad un processo generale (quello che in termini geologici viene definito antropocene) in cui il genere umano si è ritenuto legittimato, per le intrinseche caratteristiche che lui stesso si è attribuito, a utilizzare e modificare l’ambiente intorno a se per migliorare la propria esistenza e il proprio sviluppo. Al di là delle diverse narrazioni mitologiche e scientifiche che descrivono questo processo, è evidente che si tratta di una visione di parte, che nasce da un punto di vista soggettivo – quello del genere umano, appunto – e non è detto che sia condiviso da ogni altro genere di vita senziente o entità logica che abbia a che fare con il “sistema pianeta”.
Che poi, nel corso della Storia, questo intervento dell’uomo sulla natura sia cresciuto esponenzialmente, diventando diffusamente più aggressivo, dimenticando di preoccuparsi di quanto il pianeta fosse in grado di tollerare gli effetti di questa molesta e arrogante presenza tra i propri abitanti, è altra considerazione; generalmente riconosciuta dalla comunità scientifica, accettata o subita come enunciato teorico da molte comunità politiche – che hanno organizzato innumerevoli riunioni, conferenze, trattati e hanno avviato programmi di ricerche e monitoraggi – ma che fino ad ora non è riuscita né ad affermarsi a sufficienza come consapevolezza diffusa, né ha contribuito a diffondere e condividere nuovi comportamenti virtuosi, né a prodotto risultati incoraggianti nelle azioni concrete da parte dei poteri istituzionali.
Dunque, l’affermare che una nuova infrastruttura di trasporto produca automaticamente un beneficio, sia in termini di comunicazione sia in termini di lavoro, per le popolazioni che rientrano nel potenziale bacino di utenza di quella infrastruttura, costituisce una enunciazione fino ad oggi data per scontata, immediatamente riconosciuta come logica e condivisibile dalla maggior parte degli interlocutori, tanto da quelli più direttamente interessati ai benefici promessi, quanto da quelli che, volontariamente o no, sono tenuti lontani dalla possibilità di affrontare con spirito critico la valanga di informazioni parziali e contraddittorie che sono state fatte circolare sul tema.
In questa sequenza di considerazioni, manca tuttavia un elemento fondamentale: qualcosa è cambiato nella storia recente del consorzio umano, che ha inevitabilmente minato la credibilità della affermazione precedente. Da quando nel 1972 – forse per la prima volta nella storia della civiltà occidentale – si affrontò seriamente il problema dei “limiti dello sviluppo”, con la pubblicazione di uno studio del MIT, commissionato dal Club di Roma (associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini d’affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici … Wikipedia) che attraverso studi e simulazioni informatiche complesse, furono fornite evidenze di un processo che avrebbe condotto (qualora non tempestivamente e consistentemente corretto) in tempi relativamente brevi ad un collasso del “sistema pianeta”; un collasso tale da non garantire più la sopravvivenza delle generazioni future.
Questo evento, insieme a tutti gli studi, le conferenze, i movimenti, i processi culturali e scientifici, i cambiamenti di costume che di lì sono derivati, ha stabilito – quand’anche non sia stato percepito come tale – una frattura imprescindibile rispetto ai sillogismi fino a quel momento accettati.
Che ogni azione dell’uomo, che ogni ciclo di vita di un manufatto, che qualunque presenza di fattori biologici, chimici, fisici sul pianeta che necessariamente interferiscono con l’ambiente, sia riconducibile alla produzione di un impatto ambientale quantificabile, a partire dalle leggi universalmente accettate nell’ambito delle”scienze della terra”; che i tempi con cui il pianeta è in grado di rigenerarsi, ricostruendo risorse e riassorbendo scarti, siano infinitamente più lunghi di quelli con cui le risorse vengono consumate e gli scarti prodotti, costituisce una evidenza ormai diffusamente documentata e riconosciuta, sostenuta da un numero molto ampio di studi scientifici approfonditi. Si tratta in questo caso di elementi di conoscenza destinati a incidere profondamente sui processi decisionali e sulle categorie di valori che stanno alla base dell’attuale consorzio sociale, che impongono un profondo e concreto ripensamento sul modello di “crescita” fino ad ora prevalentemente ritenuto vantaggioso per l’intero genere umano, e che rendono sempre più urgente la definizione di nuovi modelli alternativi, orientati al benessere equamente distribuito nello spazio e nel tempo, attraverso processi diversi da quelli basati sulla competizione, sul conflitto e sulla crescita esponenziale della produzione di merci e consumi, sulla accumulazione di grandi ricchezze e sulla progressiva divaricazione dell’accesso alle risorse.
Dunque, anche nel caso di azioni dell’uomo che – al lordo di eventuali errori, inefficienze o deformazioni prodotte da interessi di parte – sia concepita oggi per l’immediato futuro, a partire da categorie che appartengono alla storia precedente alla definizione di quel “limite allo sviluppo”, occorre fare i conti non solo con i tradizionali parametri attraverso cui valutare costi e benefici nel presente, ma introducendo il costo, in termini di consumo complessivo di risorse ambientali, necessario a produrre tale azione; costo che si proietterà nel tempo, incidendo concretamente sul benessere del sistema pianeta e sulle condizioni di coloro che lo abiteranno nel prossimo futuro.
Nel famoso “bilancio costi/benefici” – da cui molti si attendono una risposta definitiva, oggettiva ed univoca – il fattore “tempo” dovrà assumere un ruolo ben più rilevante di quanto gli sia stato finora assegnato. Una rilevanza che non si traduce solo in termini di “velocità” quanto piuttosto in termini di “costi/benefici proiettati in un futuro incombente”; riportata nel contesto di un arco temporale che inizia più di 20 anni or sono (1990?) e che si presume poter avviare almeno parzialmente la propria attività nell’arco dei prossimi 10 anni (2029?). Una quantità di tempo non così straordinaria per chi è abituato alla durata di processi anche contenuti di trasformazione del territorio, ma che oggi va confrontata con la velocità e la imprevedibilità delle traiettorie tecnologiche e geopolitiche che in questo contesto storico stanno radicalmente modificando la scena globale. Quale ruolo giocherà il TAV in questo mutevole e fumoso scenario?
Una seconda ragione per il NO.
Al di là delle diverse previsioni più o meno attendibili sulle quantità e direzioni dei traffici merci nell’Europa del prossimo futuro (esisterà ancora?) occorre formulare un paio di considerazioni.
Mi pare condivisibile una concezione delle dinamiche dei trasporti, secondo la quale i flussi di passeggeri e merci si comportano un po’ come l’acqua, scegliendo le vie di traffico che si rivelano più convenienti nel momento in cui siano effettivamente percorribili; flussi pronti a modificare il proprio percorso nel momento in cui si modificano le condizioni di contesto (il che rende poco attendibili le previsioni teoriche su nuovi possibili tracciati).
I sistemi della mobilità collettiva hanno in tutti questi anni contrapposto logiche di rete basate sulla concentrazione e sulla rigidità, privilegiando le grandi arterie rispetto alle reti di mobilità diffusa, spesso accompagnate da un impatto sul paesaggio e sull’ambiente non indifferente.
Queste logiche di sistema hanno subito un pesante confronto con i sistemi di mobilità individuale che, pur consumando maggiori risorse, hanno garantito un elevato livello di flessibilità nei percorsi e nei tempi, hanno inciso sui modelli di vita, sugli immaginari e sui valori simbolici, hanno realizzato una diffusa infrastrutturazione dei territori, hanno generato un ciclo di produzione e consumo che si è affermato come uno dei più incisivi del sistema industriale globale ed hanno garantito l’accumulo di grandi e piccole ricchezze per un ampio settore del mondo del lavoro.
Non è un caso che le ricerche più avanzate nel settore dei sistemi di trasporto collettivo rivolgano oggi il proprio interesse verso un campo di osservazione più ampio della sola efficienza dei sistemi di collegamento tra un punto e un altro del territorio, introducendo lo studio e la sperimentazione di nuovi modelli, in grado di far convivere efficienza, flessibilità e ridotto impatto ambientale: il problema principale infatti è costituito dal fatto che la connettività è oggi focalizzata prevalentemente sulle grandi aree urbane. Potrebbero per contro rivelarsi più attrattivi sistemi di trasporto intermodale che permettano di collegare anche località distanti dai principali centri urbani.
Questo aspetto diventa ancora più rilevante quando dalla mobilità delle persone si passa alla mobilità delle merci. Il tema della prevista saturazione della linea storica e delle previsioni di crescita dei traffici merci costituisce fin dall’inizio uno dei nodi centrali del dibattito. Il miglioramento dell’efficienza complessiva della logistica dipende, a mio parere, dalla capacità di tenere insieme le logiche dei trasporti di lungo raggio con l’intera rete di distribuzione, un sistema di nodi e aste che compongono una rete diffusa sul territorio, fino a quello che il linguaggio specialistico definisce “ultimo miglio”; un sistema in cui oggi il trasporto su gomma si rivela essere – alla fine – il più conveniente e flessibile (salvo specifici vincoli, come nel caso della Svizzera) per movimentare le merci, dai disseminati luoghi di produzione agli ancor più disseminati luoghi di consumo.
Dunque, l’esigenza primaria di un processo innovativo nel trasporto merci riguarda più probabilmente la flessibilità e la interfaccia tra modalità differenti, prima ancora che la velocità sulla singola tratta.
Non bisogna poi limitare lo sguardo alle sole tecniche trasportistiche, ma occorre allargarlo alle profonde modificazioni che stanno investendo la natura stessa delle merci e che sono relative a tre fenomeni contemporanei: la globalizzazione, la smaterializzazione e le prospettive di innovazione dei sistemi di fabbrica. Mentre la globalizzazione – e l’omologazione che ne deriva – tende a indebolire le relazioni tradizionali tra le merci, i loro territori di origine e quelli destinati al loro consumo, molti esperti di settore affermano come stia diventando sempre più diffusa la presenza, nel concetto di merce, del contenuto immateriale derivato dalla conoscenza: lo sviluppo diffuso delle micro-tecnologie e l’internet delle cose tendono progressivamente a far prevalere nelle merci il contenuto immateriale rispetto a quello materiale, fisico, che pesa e ingombra e deve essere trasportato da un luogo ad un altro. Se a questo processo sovrapponiamo quello della “fabbrica 4.0”, ossia della progressiva diffusione delle stampanti 3D in sostituzione dei tradizionali processi di manifattura, allora ci rendiamo conto della concreta possibilità che in un futuro prossimo le merci si trasformino sempre più in informazioni, capaci di viaggiare su reti assai più veloci, flessibili ed efficienti dei treni. Ma allora, è davvero così lungimirante il progetto TAV? Un progetto nato molto tempo fa, cresciuto tra mille inquietudini, reticenze e incertezze, che ha disegnato schieramenti più ideologici che obiettivi, costituisce davvero una priorità per un prossimo futuro di cui è davvero difficile intravvedere i tratti?
Rimane un’ultima ragione che, a mio parere, tenderebbe a propendere per il SI, ed è il fatto che una delle principali condizioni per garantire la sopravvivenza di un sistema basato sulla democrazia rappresentativa è che governanti e governati si rendano consapevoli e responsabili dei delicati e complessi meccanismi che permettono alla democrazia di funzionare come sistema di governo. In questa logica, assumere decisioni esplicite e responsabili anziché giocare sull’equivoco e sul continuo rinvio, tener fede a decisioni condivise a maggioranza (se queste sono state davvero raggiunte attraverso percorsi istituzionalmente legittimi e non imposte da logiche parziali e da prospettive miopi), ebbene difendere la democrazia come sistema imperfetto ma sufficientemente efficiente, potrebbe essere l’unica, ultima ragione per sostenere la necessità di tener fede ai patti e procedere nella realizzazione del TAV.
Ma anche su questo, mi pare che i pareri sino molto contrastanti e le informazioni siano, almeno per chi come me non è direttamente coinvolto negli eventi, incerte, contradditorie e insufficienti.
Sia dunque benvenuta e attuata quanto prima la proposta di IN/Arch di un Osservatorio indipendente, da realizzare attraverso l’uso temporaneo e informale di uno spazio inutilizzato, destinandolo a diffondere informazione nel modo più accessibile e condiviso dall’opinione pubblica, dove raccogliere e confrontare, senza pregiudizi, discriminazioni e censure, tutte le diverse informazioni e valutazioni sul progetto.
Vale forse la pena aggiungere una ultima considerazione: il NO può legittimamente costituire l’ultima risorsa dei rappresentanti degli interessi locali e della base sociale, per contrastare (soprattutto attraverso l’effetto mediatico) una iniziativa, assunta da una istituzione sovraordinata, che essi ritengono sbagliata e probabilmente dannosa; non costituisce a mio parere uno strumento altrettanto legittimo, se proviene da una forza politica cui è affidato il mandato istituzionale di governo del territorio, il cui compito è – quanto meno – di accompagnare a quel NO una concreta e credibile proposta alternativa, in grado di offrire almeno altrettanti vantaggi e contenere meno rischi e incertezze di quella cui ci si oppone.
Ho raccolto in questo testo le mie convinzioni e i miei dubbi, ma buona parte delle considerazioni contenute nascono da una serie di colloqui informali che gli amici Elisabetta Forni, Emanuele Negro e Federico Cipolla mi hanno cortesemente accordato.
Nella foto l’interno di un vagone dell’Orient Express