Tavola rotonda 5 aprile 2018 – redazione Repubblica Torino

promossa e organizzata da IN/Arch Piemonte

sono intervenuti: Luisa Papotti Soprintendenza Belle arti e Paesaggio, Vincenzo Ilotte Camera di Commercio Torino, Giuseppe Provvisiero Ance Piemonte, Laura Orestano SocialFare, Luca Davico PoliTo, Francesco Mosca Confindustria Piemonte.

per IN/Arch Piemonte sono intervenuti: Paola Valentini, Davide Derossi, Giorgio Giani, Franco Lattes, Francesco Tresso.

moderatoreMarina Paglieri Repubblica Torino

Il testo istruttorio con gli interrogativi che abbiamo condiviso con tutti i partecipanti in preparazione della tavola rotonda.

PREMESSA

Quella che ci permettiamo di sottoporvi è una interpretazione, tra le tante espresse da autorevoli studi sul rapporto tra economia, territorio e architettura, che ad IN/Arch Piemonte pare fornire una rappresentazione credibile del stallo in cui versano le nostre politiche dei nostri territori e suggerire possibili vie di uscita.

Le grandi metropoli internazionali (da Londra a New York, da San Paolo a Dubai) hanno concretizzato un modello di sviluppo estremamente concentrato, connesso ad un sistema economico globale e per molti aspetti indifferente ai sistemi territoriali che li circondano. Esse propongono un’immagine fortemente connotata dalla fitta presenza di architetture spettacolari, dove la “bigness”, lo sviluppo in altezza, la ricerca di forme e tecnologie sorprendenti, assolvono al compito prevalente di rappresentare la capacità di iniziativa di grandi “players”, fortemente connessi alla rete della finanza globale. Questa tendenza all’eccezionale fa sì che anche il rapporto con il sistema urbano, l’idea condivisa di qualità della città, venga progressivamente distolta dalla dimensione del disegno urbano, della risposta ai bisogni della collettività, delle politiche dello spazio pubblico e dell’ambiente – una dimensione tridimensionale, estesa e di elevata complessità – per concentrarsi sulla dimensione scenografica dello “skyline”, che insegue l’impatto immediato e simbolico assai più che la risposta a questioni di forma e di funzione urbana.

Gli effetti negativi sulle aree metropolitane che hanno perseguito questo modello di sviluppo iniziano non da ora a manifestarsi in modo evidente non solo sul piano urbanistico, quanto e soprattutto su quello economico, politico, sociale, ambientale, tanto che sono oramai molte ed eterogenee le voci, anche autorevoli, che mettono in guardia da un probabile stravolgimento degli equilibri mondiali.

Nonostante questo, le politiche di sviluppo di queste aree metropolitane, sembrano indirizzarsi per i prossimi decenni nella stessa direzione, considerando gli effetti negativi del modello di sviluppo un semplice “elemento di disturbo” da governare considerandone i costi economici. È un modello che può reggere a se stesso ancora a lungo?

In The Global City, Saskia Sassen dimostra come numerose metropoli mondiali si sono sviluppate allinterno di mercati transnazionali e sono oramai più simili tra loro rispetto al loro rispettivo urbanesimo regionale. Le città globali vivono in virtù dei legami di interdipendenza finanziaria e commerciale presenti tra loro, in altre parole si autoalimentano, e la loro posizione geografica non le rende sempre un volano per la ricaduta degli investimenti sulla regione che rappresentano. Molto spesso, infatti, i capitali finanziari articolano lo spazio della città globale, trasformandolo continuamente senza portare vantaggi particolari alla regione circostante. (Alberto Bortolotti, La città globalesecondo Saskia Sassen, Pandora, settembre 2017.

Anche nel nostro tessuto territoriale, per quanto ben lontano dalle caratteristiche delle “città globali”, assistiamo a tentativi di rincorsa all’affermarsi di questo modello, per taluni considerata come unica possibile via di uscita dalla crisi.

Le stesse azioni di governo, alle varie scale, paiono sempre più sottostare all’egemonia dei grandi operatori del mondo finanziario, come unici attori accreditati, capaci di attrarre investimenti e ad avviare percorsi di trasformazione. Le uniche iniziative significative visibili paiono essere quelle legate a grandi operatori, capaci di convogliare grandi quantità di risorse, muovendosi su grande scala, prevalentemente trans-nazionale.

La discussione sulle reali ricadute di queste politiche, in cui i governi locali (ai diversi livelli territoriali) sono sempre più condizionati da interessi e strategie che derivano da scelte fatte altrove (i centri decisionali sono spesso molto lontani dai territori su cui ricadono) resta aperta e probabilmente lo resterà ancora a lungo, data l’estrema eterogeneità dei dati presi in esame e delle scale di osservazione, più o meno estese nello spazio e nel tempo.

Eppure i processi, le energie e le potenziali risorse continuano ad essere presenti e diffuse, seppure in forme diverse da quelle tradizionali ed esprimono una potenziale vocazione alla trasformazione; tuttavia non riescono facilmente a trovare sbocchi operativi.

Contemporaneamente, tanto nei centri urbani quanto in quelli non urbanizzati, affiorano istanze di innovazione, comportamenti e stili di vita che difficilmente si adattano alle tradizionali categorie funzionali: sicurezza, sostenibilità, innovazione tecnologica, condivisione, diffusione della cultura, inclusione, mutamenti nella composizione sociale e nel radicamento territoriale, tutela dei beni comuni, problematiche di giovani e di anziani, costituiscono solo alcuni dei nuclei tematici da cui è possibile partire per valutare la concreta possibilità di strategie operative, che possano avviare trasformazioni senza essere eccessivamente condizionati dai quadri normativi e dalle mosse dei grandi centri decisionali.

Queste riflessioni corrispondono in larga parte al tema del Congresso IN/Arch del prossimo 11 aprile a Roma, che si incentra sul tema Bigger is Better?, interrogandosi su quale possa essere la via italiana all’innovazione e quali possano essere le prospettive per il futuro prossimo, tenuto conto che il tessuto territoriale italiano esprime, per la sua particolarità storica e geografica, altre possibili vocazioni, che potrebbero indirizzare il progetto verso modelli alternativi di sviluppo, imperniati su reti di città territoriali di dimensioni medie e piccole, su un modello imprenditoriale di piccola – media impresa diffusa, sulla attrattività turistica dei tanti luoghi di cultura, sulla necessità di implementare e innovare gli apparati infrastrutturali, sul valore strategico della ricerca e della progettualità.

La ipotesi che vi sottoponiamo in questa tavola rotonda è che queste potenziali vocazioni alla trasformazione, questa situazioni di attesa, rappresentino un insieme eterogeneo di soggetti, istituzioni, competenze, che operano per lo più in ambiti settoriali e non sono in grado, se isolate, di raggiungere una massa critica in grado di innescare processi virtuosi.

L’interrogativo che intendiamo porre è se e come, aprendo il dialogo tra i molti soggetti e mettendo a sistema le loro potenzialità, confrontando l’intrecciarsi di domande e offerte, accettando la complessità di strategie che richiedono un elevato grado di “progettualità”, esplorando percorsi originali, formulando nuove categorie d’uso e ibridando quelle convenzionali, sia forse possibile superare la subalternità ai grandi operatori e innescare processi innovativi garanti di nuovi processi di sviluppo di lunga durata.

DOMANDE:

1

La prima questione da porre è ovviamente sulla vostra condivisione o meno di questa lettura, o se ne suggerite altre diverse, e sulla disponibilità a iniziative di indagine e approfondimento multidisciplinare – su un contesto circoscritto alla scala locale – che possano condurre a valutazioni e iniziative più circostanziate.

L’interrogativo è, in sostanza: se sia opportuno inseguire il modello espansivo delle grandi metropoli, con un processo che – a nostro parere – può risultare lungo e aleatorio, che non garantisce una equilibrata distribuzione dei costi e dei benefici sociali, che disincentiva l’intervento di operatori di dimensioni medio-piccole, o sia invece possibile, in tempi relativamente brevi, lavorare per raccogliere peculiarità e risorse diffuse e costruire reti policentriche, che mettano in comunicazione città e territori rurali, coniugando in modo nuovo un processo di sviluppo sostenibile e orientato anche al maggior benessere degli abitanti?

2

Il modello che abbiamo finora descritto come prevalente a partire dai processi in atto nelle “città globali”, si basa sul concetto di “competizione”, processo fortemente aggressivo, in cui il vincitore concentra su di se le risorse e abbandona i perdenti al proprio destino, senza preoccuparsi eccessivamente degli squilibri che questo produce; squilibri la cui ricaduta, per quanto possa essere consistente e concreta, sarà spalmata sulla collettività, rendendo difficile e incerto misurare la contropartita.

La domanda che allora si pone è se sia realistica l’ipotesi di modelli alternativi di sviluppo, in cui alla “competizione” si sostituiscano altri concetti, come “collaborazione, sussidiarietà, valorizzazione delle differenze, diffusione di modelli di buone pratiche”, allargando gli obiettivi a stili di vita, di lavoro, di consumo, di accessibilità ai servizi, di sfruttamento delle risorse umane e naturali che oggi richiamano in modo ricorrente le parole “condivisione” e “accoglienza”.

Se sfrondiamo questi termini dalla consueta accezione di soccorso alla marginalità, possiamo avviare una riflessione concreta sul significato di accoglienza, intesa come capacità di un territorio di includere e offrire spazio a nuove forme di insediamento, a funzioni urbane ibride e adattabili nel tempo, capaci di generare economia. Esiste sul territorio, in questo momento, una domanda inevasa di nuovi spazi per abitare, lavorare, studiare, vivere il tempo libero, che non trova risposta perché il mercato è saturo di insediamenti tradizionali invenduti, che concorrono al ristagno degli investimenti e soffocano la possibilità di fornire risposte adeguate. Esiste la possibilità, aggregando i soggetti che a vario titolo esprimono una domanda frammentaria ma innovativa sulla città, di generare una massa critica, sufficiente ad avviare percorsi originali e innescare processi innovativi.

L’obiettivo può essere quello di raccogliere la domanda e costruire una offerta, che può generare lavoro più diffuso, e nello stesso tempo rendere più attrattivi i nostri territori?

Quale ritenete debba essere un atteggiamento efficace nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni: limitarsi a sollecitare e contrattare interventi normativi indirizzati a semplificare e adeguare gli apparati normativi o, piuttosto, non è opportuno amplificare quella domanda frammentaria ma innovativa, coordinandola e sistematizzandola, e da questa partire per sollecitare l’azione politica?

È possibile avviare un percorso di collaborazione tra Amministrazioni Pubbliche e altri attori presenti sul territorio, che contribuisca al confronto di idee e rilanci la capacità di formulare un “progetto”, una azione insieme strategica, innovativa e condivisa? Per esempio, a conciliare la salvaguardia del nostro patrimonio storico-architettonico, che rappresenta un’enorme giacimento non sfruttato, con la trasformazione verso usi contemporanei oppure contrattare incentivi di carattere fiscale per orientare gli interventi verso obiettivi più virtuosi …

3

Un progetto di ampio respiro per uno sviluppo innovativo del territorio richiede competenza, ricerca, un apparato burocratico efficiente e snello, una elevata dotazione infrastrutturale legata a mobilità, informazione, energia, ecc. Posto che un modello come quello che abbiamo delineato, costituito da una rete diffusa di azioni di portata medio piccola, sostenibili ad una scala ampia nello spazio e nel tempo, possa essere riconosciuto come una prospettiva auspicata, è chiaro che, per passare dalla teoria alla pratica e – soprattutto – per produrre impatto ed efficienza sufficienti ad attivare un effetto volano e generare ricadute apprezzabili, occorrerà verificare la compatibilità con lo stato delle condizioni operative, con il quadro normativo e con gli indirizzi dell’azione di governo. Condizioni operative che, come precedentemente osservato, sembrano concepite in funzione di processi convenzionali e consolidati.

Riteniamo tuttavia che esistano molteplici esperienze, diffuse in situazioni confrontabili, forse anche molto prossime alle nostre, che possono costituire un punto di partenza, un repertorio di sperimentazioni ed esempi virtuosi da adattare, trasferire e diffondere (finanza sociale, sistemi cooperativi e di libero scambio, auto-costruzione …); suggeriamo inoltre l’ipotesi che, salvo verifiche e approfondimenti, una parte di queste esperienze (alcune già in atto) possano risultare compatibili con le maglie del sistema oggi consolidato e – considerando che la dimensione temporale assume un fattore strategico non trascurabile – potrebbero essere convenientemente adattate e avviate in tempi contenuti anche nel nostro contesto.

Come esperti e rappresentanti di Associazioni e Istituzioni diverse e complementari, quale ruolo ritenete che esse possano eventualmente ricoprire per contribuire a intrecciare elementi di conoscenza e avviare azioni concrete in tempi limitati?