Torino, è noto, rappresenta con le sue trasformazioni novecentesche l’esempio italiano che più si identifica con la “città fabbrica”; la sua organizzazione funzionale, le brusche discontinuità del suo tessuto edilizio interrotto o sopraffatto dall’espansione dei grandi complessi produttivi, la dimensione e diffusione delle sue dotazioni infrastrutturali, la cultura del lavoro ancora fortemente radicata, l’immaginario condiviso dei suoi abitanti e quello che di sé ha proiettato nel mondo, sono ancora in buona parte intrisi del modo in cui la presenza della FIAT ha plasmato la forma e lo “spirito” della città: il suo rapporto con il governo del territorio, i flussi di immigrazione, il loro insediamento e la dotazione di servizi resa necessaria, la disciplina del lavoro, la distribuzione delle classi sociali e la presenza operaia con le sue appendici politiche e sindacali.

Poi tutto è cambiato: le trasformazioni del sistema industriale globale, le aspettative di uno sviluppo del terziario, la decrescita e il cambiamento della popolazione urbana, il rapporto con il tessuto metropolitano, non hanno prodotto l’affacciarsi di nuove forme di lavoro, di economia, di socialità che potessero rigenerare in modo efficace le “ragioni sociali” della città. Probabilmente il Piano Regolatore di Gregotti e Cagnardi – nella sua lunga gestazione prima e nella controversa gestione poi – è nato in un momento storico in cui il cambiamento era avviato, ma i suoi esiti erano ancora difficili da leggere e interpretare, e il mandato di ridisegnare una città capace di sopravvivere alla crisi non è stato del tutto assolto. Le Olimpiadi, l’Ostensione della Sindone, il Salone del Libro, l’insieme di una rete di eventi di richiamo artistico e culturale hanno fornito un contributo al tentativo di ripensare ad una nuova vocazione della città, per incentivare il turismo, consolidare vocazioni e richiamare investimenti, ma quel contributo ha dato frutti solo per alcune parti del territorio.

Anche la presenza determinante di due Atenei, di istituzioni di formazione e ricerca, e di un tessuto di scuole, di attrezzature e di servizi alla cultura diffuso e articolato hanno giocato la loro parte, prima come dotazione prevalentemente diretta a servire il bacino sociale richiamato dall’industria, poi guadagnando progressivamente in autonomia, prestigio, capacità di esprimere i propri caratteri di eccellenza e originalità. Oggi, il tema della formazione sta assumendo in molte città del mondo, un carattere sempre più strategico, come risposta necessaria alla gestione di un mondo in rapida evoluzione tecnologica, sempre più complesso e mutevole, sempre più competitivo e condizionato dalla necessità di affermare una propria identità –  e di attrarre investimenti – attraverso le categorie del progresso e dell’innovazione.

Anche a Torino il sistema universitario è notevolmente cresciuto in questi anni, e le prospezioni inducono a ritenere che questa crescita sia destinata a continuare nell’immediato futuro; sono dunque molte le indicazioni che possono far pensare a Torino come una città in transizione, da “città fabbrica” a “città universitaria”. Ma questa prospettiva non può limitarsi a immaginare che al vuoto delle fabbriche si sostituisca il pieno delle università e dei luoghi di ricerca e innovazione, senza che nella città si creino le premesse per ripartire equamente benefici e oneri e per ottenere – collettivamente – il massimo risultato con la minima dispersione di risorse.

La realtà delle città universitarie di antica tradizione europea – Londra, Parigi, Glasgow, Berlino…. – ci restituisce immagini molteplici e sfaccettate, in cui la vivacità la creatività del mondo universitario si fondono intimamente con la vita quotidiana e il carattere della città intera, non solo per la presenza delle istituzioni universitarie più prestigiose, non solo per la dotazione di servizi (residenza, trasporti, commercio, ristorazione, sport e tempo libero, musei, parchi, sanità, banche…) ma perché la porosità della città è in grado di accogliere in mille modi le diverse esigenze degli studenti e di inventarne di nuove, dalla vita notturna ai mercatini, alle biblioteche, agli internet point, ai luoghi dedicati alla socializzazione e allo studio, al coordinamento e all’assistenza, all’accoglienza nelle case private, alle opportunità di lavoro compatibile con lo studio ecc. ecc.

Come confermano le molte occasioni in cui i processi di rigenerazione urbana nel mondo hanno puntato su nuovi insediamenti per la formazione, la ricerca, il trasferimento tecnologico, la presenza universitaria costituisce – attraverso il mix sociale, il dinamismo, l’emulazione – uno straordinario dispositivo di incentivazione all’emancipazione sociale: la presenza diffusa di energie culturali tende a propagarsi e coinvolgere anche la popolazione non studentesca: sui libri, come sui pacchetti di sigarette, dovrebbe essere scritto il monito (un incentivo o una orwelliana minaccia?) « se studi o leggi rischi di propagare cultura anche a anche chi ti sta intorno!».

Oggi le sedi universitarie si debbono confrontare con dispositivi di “ranking” feroci e spesso indirizzati da criteri di valutazione estranei alla nostra cultura e ai nostri obiettivi di conoscenza.

Per competere sul piano internazionale, una “città universitaria” non deve necessariamente puntare solamente su criteri di particolare avanzamento scientifico, concentrati in campi trainanti del sapere e dell’economia; deve certo puntare anche sulla qualità scientifica e umana dei docenti, dalle attrezzature, dalle dotazioni e dai servizi che è in grado di fornire.

Ma deve mettere in gioco soprattutto la sua particolare capacità di produrre conoscenza e trasformarla in risorsa secondo assi culturali originali, di trasmettere un personale “appeal” legato al modo di vivere e abitare la città, che muove dalla sua storia e dalla sua cultura, dal suo fascino e dall’attitudine ad accogliere e integrare, dalla capacità di coordinare e orientare nella quotidianità delle esigenze degli studenti, dei docenti, della sua popolazione in genere.

Tuttavia, come ha più volte affermato Gianmaria Ajani, il Rettore dell’Università degli Studi di Torino (citato in questo stesso numero da Enrico Bettini), questa propensione a far crescere la vocazione universitaria della città non ha trovato nella politica, tanto a scala locale quanto nazionale, un interlocutore attento e motivato e ciascuna istituzione, ente o iniziativa non ha potuto che muoversi secondo le proprie personali logiche e contingenze.

Non è un caso, tuttavia, che proprio in questi giorni sia in corso un convegno internazionale organizzato dall’Università degli Studi in collaborazione con la Città di Torino, dal titolo “European cities and strategic planning, 30 years later” i cui temi centrali (lo sviluppo urbano e la pianificazione strategica, l’importanza di fare rete, il ruolo delle città in relazione con il territorio che le circonda), ruotano prevalentemente intorno alla capacità di costruire un forte rapporto tra università e tessuto urbano, tanto dal punto di vista economico e sociale quanto dal punto di vista della sua forma fisica.

Non è un caso neppure che il 27 Marzo si discuta nelle commissioni del Consiglio Comunale la mozione presentata da Torino in Comune sul tema delle “politiche giovanili” in merito alle azioni che l’Amministrazione cittadina intende assumere per migliorare l’integrazione, la sostenibilità, la qualità della presenza universitaria nella città.

Dunque, qualcosa lentamente e faticosamente si sta muovendo; ma, per ritornare all’inizio, Torino non è stata, nella sua storia, nella sua configurazione, nei diversi “spiriti” che la hanno animata, una vera “città universitaria”. Ha probabilmente la possibilità di introdurre questa vocazione nel suo divenire, ma si tratta di una trasformazione che non può avvenire per sole azioni spontanee e frammentarie di singoli soggetti; occorre una strategia approfondita, una lucida volontà politica da parte de settore pubblico, una disponibilità dei diversi operatori, istituzionali e privati, a coordinarsi e collaborare.

Occorre un progetto.

Nella foto Freie Universitat Berlin progetto di Candilis, Josic, Woods and Schiedhelm