Con la notizia della scomparsa di Vittorio Gregotti, il 15 Marzo 2020, molti di noi – quelli che da più  anni calcano la scena dell’Architettura – avvertono sulla propria pelle che la tragica conta del contagio passa più vicino di quanto si potesse immaginare. Sono molti i tracciati che intercettano il percorso di Gregotti con quello formazione della nostra generazione e del fitto scenario di esperienze e confronti in cui ciascuno di noi ha sperimentato il mestiere di architetto: nell’ambiente milanese dove più penetrante e diretta è stata la sua capacità di costruire una comunità culturale; in quello nazionale, dove ha progettato e realizzato una grande parte delle sue opere ed ha diffuso una corrente di pensiero tanto articolata e aperta quanto rigorosa e coesa; in quella internazionale, dove ha saputo esprimere ai più alti livelli la ricchezza di una scuola di Architettura che non si limitava ad affermare una propria cifra linguistica.

Vittorio Gregotti è stato sicuramente uno dei protagonisti principali dell’Architettura dello scorso secolo e forse uno di quelli che sono stati più rapidamente rimossi dalla scena, negli inizi di questo.

Al di là della rilevanza delle sue moltissime opere di progettista, sempre sospese tra luogo e grande scala, attente a interpretare la genetica dei processi territoriali più che ad affermare figure e stilemi (tra le tante, con Augusto Cagnardi fu estensore dell’attuale PRG torinese), di critico, di docente, di scrittore, Gregotti seppe incarnare forse più di tutti quella figura di progettista e intellettuale, colto, riflessivo, autorevole, indagatore cui una fetta consistente di operatori dell’architettura si ispirava. Una figura che, per tutta la seconda metà del ‘900, si batté affinché l’Architettura conquistasse una posizione di rilievo nella scena politica e culturale e giocasse un ruolo nel divenire del paese.

Asse portante del suo contributo all’Architettura furono gli anni di direzione di Rassegna prima e Casabella poi, in cui fece emergere la vastità dei campi di interesse e lo spirito ricerca che caratterizzavano il suo atteggiamento verso l’Architettura; due riviste che scompaginarono la impostazione aneddotica dei Magazine di settore, per diventare sequenza di monografie, ciascuna dedicata alla riflessione multidisciplinare intorno a nodi tematici del rapporto tra Architettura e Mondo. In quelle monografie lo sguardo dell’architetto occupava la posizione centrale, capace di interrogarsi e di suggerire risposte a partire dal confronto inedito e fecondo con altri sguardi, altre discipline, altre professioni, altri sistemi di oggetti, come la Biologia, la Filosofia, la Fotografia, la Grafica, la Geografia, il Design e, prima fra tutte, con la Storia intesa come divenire delle idee e dei linguaggi individuali e universali.

Una stagione ormai conclusa, ben prima che questa tragica crisi planetaria ne sancisse la definitiva estinzione, perché l’impegno di quel pensiero complesso, responsabile, soccombe di fronte alle seduzioni e delle derive che gli attuali assetti globali hanno prodotto sui comportamenti e sui ruoli degli architetti.

Ma, probabilmente, una stagione cui varrà la pena di ripensare, quando tutto questo avrà prima o poi fine, quando saremo in grado di ricostruire i filamenti che tengono insieme le nostre radici con il nostro progetto di futuro.