Considerazioni dopo il 12 giugno: SCANDAGLI #1

La difficoltà di comunicazione tra architetti e non, è questione antica, che affonda in diverse ragioni, prima fra tutte l’impermeabilità dei linguaggi; non è estraneo l’elitismo altezzoso dell’accademia, a cui si è contrapposta una visione miope e di piccolo cabotaggio da parte degli Ordini professionali; come non è estranea la caduta di credibilità degli addetti ai lavori (progettisti, imprese, amministratori, enti di tutela…..), legata ad una diffusa”disinvoltura” nei confronti della responsabilità etica propria di chi interviene sul territorio, che costituisce nel suo insieme – indipendentemente dai regimi di proprietà e di funzioni ospitate – il più grande “bene comune” della collettività.

Barriera comunicativa che si rivela ancora più forte tra chi, da una parte, sostiene il valore dell’Architettura come contributo “civile”, come “intervento sullo spazio fisico affinché questo accolga nel migliore modo possibile la vita, il lavoro, la politica, la cultura, l’agire degli uomini” e che dunque non si limiti ad assegnare superfici o a confezionarne l’immagine, ma contribuisca a promuovere con efficacia, intensità, intelligenza e ricchezza culturale questi aspetti della società; una Architettura che si basa sull’idea di progetto come ricerca e sperimentazione continua; Architettura come fatica, rischio ed passione del tuffo nel “nuovo”, in ciò che ancora non c’è, non è stato ancora del tutto collaudato, catalogato, omologato.

Dall’altra, in vari modi, tutti coloro – anche addetti ai lavori – che si accontentano di leggere la questione territorio/progetto/architettura attraverso schemi consolidati, modelli, pratiche, stereotipi e categorie di giudizio separate, sedimentate e ripetitive; tutti coloro (i politici, in particolare) che non riconoscono alla questione alcuna rilevanza nei concreti processi di trasformazione sociale e di distribuzione del potere; tutti coloro che ritengono che compito esclusivo ed elitario dell’Architettura sia occuparsi del “bello” (vedi alla voce “Bellezza” del dizionario di architettese, nel n° 9 di questa Newsletter)

In effetti, all’incontro, molti interventi si sono confrontati con il tema, hanno fatto intravedere prospettive interessanti ed hanno fornito contributi costruttivi; altri, invece, probabilmente fraintendendolo, sono debordati su periferie, contenimento energetico, linee di metropolitana, ecc.

Non è così grave dal punto di vista della riuscita di una iniziativa singola! Ma si tratta di una indicazione importante, che tutti quanti, IN/Arch e gli altri protagonisti, dovranno seriamente valutare e riprendere in mano se, come è nostra intenzione, si intende garantire l’efficacia di ulteriori tappe di SCANDAGLI, per approfondire e dare concretezza alla ipotesi enunciata nel primo incontro.

Aprire processi di comunicazione, confronto, sperimentazione è sempre più difficile, tanto più quando i contenuti tentano di discostarsi dagli stereotipi più ricorrenti e cercano di sgretolare separatezze e ruoli sclerotizzati. L’inerzia e la semplificazione (non quella delle regole ma quella del pensiero) non a caso sono considerati un tratto distintivo dello “spirito del tempo”.

L’inerzia di riti consolidati ha prodotto in alcuni tratti una distorsione: la deriva verso discorsi di circostanza; quelli per i quali non è così necessario aver preso visione dell’ordine del giorno e averne del tutto compreso il significato, e neppure avervi saputo individuare un proprio ruolo; un evento dove è soprattutto importante esserci più che dimostrarsi capaci di coglierne le opportunità, contribuendo con valutazioni, idee, iniziative….

Anziché scandagliare le profondità, in alcuni passaggi è riemersa una immagine superficiale e schematica dei processi urbani, e qualche testimone distratto può pensare di essersi trovato in uno dei tanti eventi già celebrati, intorno alle politiche di trasformazione della città.

Senza pretendere di apparire i primi della classe, ci teniamo a sottolineare che la nostra non era, come invece ha affermato l’assessore Montanari, una domanda retorica! Lo sarebbe stata se avessimo posto la questione: “la città, la vuoi brutta o bella?

La nostra domanda era, invece: “esistono le condizioni per partire dal basso anziché dall’alto? La crisi in atto, le potenzialità offerte dalle nuove infrastrutture tecnologiche, l’attivazione di esperienze e competenze avanzate, il dialogo tra discipline e ruoli tradizionalmente separati, possono trasformarsi in opportunità per aprire nuovi processi, definire nuove categorie, pensare ad una rete di piccole iniziative che possano dimostrarsi più efficaci di grandi e spettacolari trasformazioni, imposte da logiche per lo più disomogenee al territorio su cui andranno a insediarsi?”

Questo non solo per una esigenza etica, ma per la constatazione di quanto sia sempre più necessario conoscere la forma assunta dai processi economici per operare sugli insediamenti, perché gli investimenti esogeni, portati dai grandi operatori, sono fisiologicamente attratti da mercati potenzialmente più remunerativi, garantiti da una compatta e organica strategia di collaborazione tra imprese e decisori, e dunque la trama minuta della città, gli abitanti, i piccoli imprenditori, gli artigiani, ciò che resta di un tessuto commerciale di prossimità, è reso sempre più emarginato e indebolito dalla logica dei grandi interventi, anche di quei pochi che forse continueranno a convergere su Torino.

Le risposte alla domanda potevano essere molteplici, qualora si intendesse effettivamente mettersi in gioco in un percorso di esplorazione. Andava benissimo anche un “no”, purché motivato, argomentato da un ragionamento nel merito: “è una ipotesi che non si sostiene economicamente – oppure – comporta procedure che confliggono con un sistema di norme troppo rigido per permettere di percorrere strade non convenzionali – oppure – il reperimento di investitori alternativi non è così plausibile da garantire esiti apprezzabili…..” Ma dire “no” è oggi sempre più difficile!

Anche se, come abbiamo documentato, altre realtà hanno proceduto nella direzione da noi suggerita, non limitandosi a pronunciare un “si” di circostanza, tanto condiscendente quanto evasivo, ma rivolgendo interesse alle potenzialità delle iniziative di base, spesso attivando apposite authority autonome dal potere politico, con una precisa missione e una prospettiva temporale realisticamente ampia ma definita; tutte sono partite da una operazione semplice e di costo molto contenuto: il censimento delle proprietà (pubbliche e private) inutilizzate, da una parte; delle emergenze, delle criticità e delle potenzialità dall’altra; per poi incrociare i dati, stabilire procedure e priorità, accompagnare e facilitare i processi, valutarne i risultati.

Se una revisione normativa del Piano è tutto ciò che possiamo aspettarci, bisogna però essere consapevoli che questo significa limitarsi a indicare la direzione in cui si intende andare, senza entrare nel merito di quale possa essere l’impulso che avrebbe davvero la capacità muovere la città verso quella direzione. Non basta un buon timoniere a muovere la barra verso la direzione scelta, occorre mettere a segno le vele in funzione dei venti portanti, delle raffiche di tempesta o delle brezze leggere, considerare il mare e le correnti, valutare i rischi e le derive, essere in grado di anticipare l’evoluzione di quei fenomeni, costruire una strategia, per far si che la barca trovi l’impulso per muoversi.

Sicuramente, SCANDAGLI ha chiuso la sua prima iniziativa con un bilancio positivo (abbiamo incontrato persone e operatori interessati, abbiamo messo insieme soggetti diversi disposti a confrontarsi, abbiamo in qualche modo reagito, con una proposta, ad un comune senso di frustrazione e impotenza).

«Secondo quanto riferisce la Bibbia nel cap. 18 della Genesi, Dio rivelò ad Abramo che stava per distruggere Sodoma e Gomorra, perché “il loro peccato era molto grave” e “il grido che saliva dalle loro città era troppo grande”. Abramo intercedette per le persone giuste della città contrattando con Dio e Dio gli rispose che non l’avrebbe distrutta se avesse incontrato dieci persone giuste nella città…» 

Forse quei dieci “Giusti” esistono davvero e noi stiamo cercando (nel nostro piccolo, mica siamo Abramo! e Torino non è Gomorra!) di contribuire a creare le condizioni affinché emergano, si incontrino e concertino una azione comune, ma resta l’amarezza di dover ancora una volta constatare quanto il decadimento della nostra cultura abbia rimosso il concetto di progetto, inteso come “meticolosa” e “rigorosa” prefigurazione di un pezzo di futuro, un passaggio essenziale (come ci ha efficacemente spiegato Laura Orestano di SocialFare), in una società complessa e in veloce trasformazione, in cui i poteri, le risorse e i bisogni sono sempre più plurali, eterogenei e opachi.